di Gianni Di Quattro
Non so quanta gente ogni tanto si ferma a pensare alla umanità che ci circonda, non ho visto statistiche al riguardo e non so se ce ne sono. Voglio dire pensare alla gente, a tutta la gente, a come è organizzata la società, a come la politica e le strutture istituzionali politiche, accademiche, imprenditoriali, mediatiche e di qualsiasi altra natura, parlano tra di loro, con la gente normale e di come tutti si comportano, si relazionano, cercano di occupare un posto nella società.
La sensazione, devo confessare con molta incertezza e allo stesso tempo con molto dolore, è che la gente parla tanto, ma dice poco. Tutti gridano, scalpitano, avanzano tesi su tutto o quasi tutto, vogliono dimostrare di sapere tutto, odiano quelli che non la pensano come loro, si trincerano dietro a pregiudizi che sono il “taglia e incolla” naturale prima di essere recepito dalla tecnologia.
Allo stesso tempo, se si fa davvero attenzione, a guardare l’umanità che ci circonda si scopre che è piena di paura e di solitudine. E per conseguenza molto spesso diventa aggressiva, violenta. Ovunque nel mondo, si moltiplicano i casi di persone che ammazzano perché non capiscono più la loro vita e non sanno dove trovarne una ragione qualsiasi. Tutti cercano di vincere anche se non sanno cosa, di combattere quelli che pensano essere nemici, di giustificare la loro vita e non sono capaci di guardarsi dentro, di vivere con se stessi, di cercare la cultura e la bellezza come le medicine migliori della vita.
Mio cognato un giorno ha definito comunicare come l’arte di mettere in comune. Ecco, l’umanità non sa comunicare, o forse non sa più comunicare. A dispetto di tutte le tecnologie sviluppate proprio a tal fine…
Caro Gianni, è la prima volta che non sono d’accordo con quanto scrivi.
Purtroppo, la nostra età ferma tua attenzione al dolersi per il modo d’essere del mondo di noi anziani.
E’ necessario guardare oltre per scoprire che la parola “gioventù” indica sempre meno un’età di passaggio verso l’età adulta: i giovani hanno avviato una trasmigrazione sociologica che li ha fatti diventare una categoria sociale con autonome istanze, con un sorprendente internazionalismo culturale e con un notevole potere d’acquisto consentito dal benessere che si è diffuso.
La crescita demografica iniziata alla fine della guerra, l’espansione dei ceti medi determinata dal progressivo sviluppo economico e l’allungamento dei tempi della frequenza scolastica hanno creato le condizioni sociali per il concentrarsi nella scuola di milioni di giovani che esprimono ormai una loro visione del mondo e della società: consapevoli di avere un livello d’istruzione superiore a quello dei genitori, sono portatori di fermenti nuovi, sempre meno controllabili.
Si sono creati stili di vita diversi da quelli degli anziani. Anche con la rottura degli schemi estetici del vestire tradizionale.
Oggi, però, un progressivo deficit demografico è la causa inesorabile di una crisi che frastorna i Paesi occidentali: il problema è molto ampio e ha origini generali, raramente segnalate dagli economisti e dai politici.
Non si è di fronte ad una delle solite, cicliche crisi economico-sociali.
Un’evidente stanchezza delle nuove generazioni esprime la delusione per le false promesse del capitalismo e, nei fatti, fa avanzare un imponente fenomeno nuovo: la “destrutturazione” della civiltà occidentale.
È, questa, una realtà che viene quasi rimossa perché dovrebbe essere affrontata con impostazioni nuove dei processi economici e del dialogo umano anche con le altre aree del mondo.
I più attenti demografi hanno spiegato che siamo di fronte a una non dichiarata quasi guerra planetaria che ha come obiettivi la redistribuzione del lavoro e un riequilibrio dei consumi fra tutti i popoli del mondo.
È una guerra a lunghissima scadenza, combattuta con un’arma contro la quale non può essere opposto nulla: il movimento planetario delle genti.
Gli avvenimenti più recenti del Mediterraneo, con migliaia di profughi in fuga che muoiono fra le onde del mare, lo dimostrano fatalmente.
Il fenomeno è inarrestabile, progressivamente crescente, definitivo.
Non si muovono soltanto le masse umane dei paesi poveri verso quelli ricchi o i profughi, che pure nei cinque continenti sono milioni e milioni.
Si muovono anche le masse rurali verso le città che stanno diventando megalopoli incontrollabili e si muovono da un paese all’altro flussi crescenti di lavoratori specializzati, dirigenti di aziende, uomini d’affari, studenti, sportivi e artisti in un interscambio economico, culturale ed umano che tende a costruire una civiltà globale di cui non è possibile prevedere quale sarà il modo d’essere.
Si aggiunge il fatto che a fronte dei quarantacinque milioni di disoccupati del mondo occidentale stanno i due miliardi e mezzo di disoccupati e sottoccupati del resto del mondo, verso il quale gli imprenditori occidentali stanno delocalizzando le loro aziende per godere di costi del lavoro più bassi anche del novanta per cento.
Inoltre, gli immigrati africani e asiatici, che arrivano in Occidente a centinaia di migliaia ogni anno e che ormai sono decine di milioni, offrono il loro lavoro a prezzi che tendono ad allontanare dal mercato gli autoctoni, aggravandone la disoccupazione. I gruppi immigrati, inoltre, rimangono fedeli alle loro culture, religioni e visioni della vita che, presto, metteranno in discussione la presunta universalità dei principi dei popoli occidentali che, demograficamente, tendono a diventare minoranza etnica nei loro stessi paesi.
È sorprendente che non sia ufficialmente dichiarato ed ammesso che il fenomeno demografico è la via lungo la quale l’Occidente si sta incamminando verso la “destrutturazione” della sua civiltà: ci vorranno decenni, ma è una prospettiva incontestabilmente certa.
Non sarà un disastro ma una via per una nuova prospettiva della realtà degli uomini nel mondo.
Le sempre più massicce migrazioni delle genti verso il mondo occidentale stanno mettendo in evidenza come, per la più frammista mescolanza di etnie, di culture e di religioni, si sia sulla strada per superare l’uniformità ariana, religiosa e culturale delle popolazioni dei Paesi occidentali fino al conseguente superamento dello stesso concetto ottocentesco di nazione: il cosmopolitismo illuministico è sulla strada di una rivincita sul nazionalismo romantico.
È sufficiente guardare alla televisione le squadre di calcio delle nazionali europee: schierano sempre più numerosi giocatori di origini africane o asiatiche che hanno acquisito la nuova nazionalità.
Esprimono fenomeni immensi, epocali che stanno cambiando ogni prospettiva immaginata: si è di fronte ad un processo smisurato che impone di immaginare lunghi tempi evolutivi per chiarire i suoi possibili traguardi.
Ma le prospettive possono essere già intraviste anche se vengono rimosse per le complesse incertezze che propongono.
La vasta portata di quanto accade è lampante. Prendere le iniziative giuste non sarà facile: i limiti delle risorse energetiche e naturali, il revanscismo anticolonialista dei Paesi emergenti e di quelli del Terzo Mondo, l’inarrestabile movimento delle genti e gli sfrenati consumi occidentali sono le ragioni strutturali profonde che imporrebbero di studiare nuove basi per rivedere radicalmente le impostazioni dell’economia del pianeta.
Ma chi ha le ricette adeguate?
L’apertura dei mercati, determinata dalla fine della guerra fredda, ha posto le premesse della crisi occupazionale generata dalla progressiva redistribuzione planetaria del lavoro che ha messo in evidenza un’altra esigenza globale: la necessità di riequilibrare il livello dei consumi di tutti i popoli del mondo.
La realtà, immensa ed incombente, sono le masse di milioni e milioni di africani e asiatici che fuggono dalla fame e dalle guerre e sognano di trovare in Occidente quella serenità che, da sempre, è stata la speranza degli uomini.
E, purtroppo, nei paesi occidentali non c’è quella preparazione umana e culturale che sarebbe necessaria per affrontare il problema con la dovuta compostezza: molti studiosi nel mondo si impegnano per dare informazioni adeguate ma non godono di quella considerazione diffusa che sarebbe necessaria.
I saggi di Massimo Livi Bacci e Luigi Luca Cavalli Sforza, grandi scienziati che in Italia si distinguono per l’accurato impegno che spendono nei loro studi demografici, sono chiari.
Se l’umanità fosse rimasta ferma al tipo di cultura diffusa nel primo medioevo, quando non si era ancora affermato il concetto di nazione e i valori nazionali non avevano alcuna rilevanza, il problema che oggi è rappresentato dal convergere di genti della più diversa cultura non sarebbe neppure rilevato.
E, non rilevandolo, consentirebbe un più rapido generale arricchimento culturale e una continua crescita civile.
Contro ogni opposizione possibile e contro ogni razzismo emotivo, quando questo intreccio, ovunque nel mondo, sarà così radicale da non consentire più alcuna distinzione di etnie e di culture, le ragioni nazionalistiche dei conflitti umani saranno state superate: in quel tempo, ancora lontano, il mondo sarà uguale patria per tutti, in ogni suo angolo.
Tutti potranno dire come Dante Alighieri «ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare…» (De Vulgari Eloquentia, I, 6).
O, come Charles Chaplin, dire «Non sono cittadino di nessun posto, …. sono un patriota dell’umanità nel suo complesso. Io sono un cittadino del mondo».
Gli egoismi delle “nazioni” non avranno più alcun fondamento: non ci saranno più le “nazioni” ma una diffusa, multiforme ed indistinta popolazione mondiale multietnica e multiculturale. Pian piano, l’infinita mescolanza fra le etnie e le culture avrà fatto superare quella paura che genera il razzismo. E, superato il razzismo, il dialogo umano sarà più sereno.
Passeranno anche secoli, ma accadrà.
Caro Gianni, scusami se ritorno sulle tue riflessioni pessimiste sulla realtà dei nostri anni, ma vorrei richiamare la tua attenzione sul fatto che, proprio in questi giorni, è uscito nelle librerie un mio romanzo, “Finalmente domani!”, che tenta di indicare gli aspetti positivi della prospettiva umana.
Leggilo e fammi conoscere il tuo parere. I più cordiali saluti, Mario