di Gianni Di Quattro
Un attento osservatore, specie se viveva in azienda da parecchio, poteva capire da molti segnali che l’azienda stava scivolando verso il nulla. In altri termini la fine non è arrivata d’improvviso, ma da lontano e cioè da una serie di decisioni che la hanno colpita duramente e negli ultimi tempi da un sovrapporsi di comportamenti del management che si capiva che erano tentativi disperati e comunque casuali.
Prima di cercare di individuare qualche sintomo che lasciava prevedere il percorso, bisogna dire che specie negli ultimi tempi, diciamo da quando Carlo De Benedetti ha preso il timone dell’azienda, il management ha dimostrato sempre poco coraggio. Un fenomeno strano, le cui cause sono difficili da individuare, forse il modo di operare dell’Ingegnere faceva capire che non c’erano, non ci dovevano essere alternative al suo pensiero e questo concetto è stato recepito da tutto il management un po’ per la situazione imprevista rispetto alle tradizioni aziendali e un po’, diciamocelo, per salvaguardare posizioni personali di rilievo.
I sintomi. Negli ultimi anni non si è investito più nei giovani e nella formazione, simbolo preciso di disinteresse per il futuro. Si cercavano professionalità da inserire cercandole nella concorrenza e specialmente nella IBM, considerata (giustamente) riferimento del settore. Ma anche in altre aziende come Philips e Digital. Tante persone si sono viste provenienti da IBM, tutte degne persone, ma nessuno o quasi è riuscito ad inserirsi, come è naturale, di colpo nella struttura e nella cultura Olivetti, rimanendo loro in una situazione di imbarazzo e la struttura in incertezza. Alcune di queste persone inserite, tutte di valore prese singolarmente, sono anche state oggetto di polemiche all’interno dell’azienda per i ruoli ricoperti, per il comportamento, per lo scarso contributo che sono riusciti a dare come peraltro era intuibile. Questa operazione di immissione di professionalità esterne è stata anche il simbolo di volere rinnegare la cultura Olivetti, la professionalità di tanti e nello stesso tempo volere affermare che la colpa della situazione che continuava a degradare era del personale e non del management. Era successo anche all’Impero romano quando i barbari cominciarono ad occupare tutti i posti di responsabilità prima del crollo finale e definitivo.
L’abbandono di qualsiasi politica: del personale, commerciale, strategica. Si aveva la sensazione osservando l’azienda dall’interno ma anche dall’esterno, anche da parte di clienti e fornitori, di una azienda allo sbando che cercava disperatamente di vivere cercando i fasti del passato ma senza averne minimamente la possibilità, come una vecchia signora che cerca di far vivere il suo passato con belletti e profumi.
Si sono visti direttori di filiali e direttori commerciali improbabili, accordi con società di software per l’assistenza ai clienti accettando condizioni pesanti, un continuo smantellamento di persone, di luoghi, di abitudini.
Una situazione di disfacimento aziendale che ogni giorno di più sembrava davvero irreversibile, senza possibilità di qualsiasi intervento. Si può capire la breve stagione di Francesco Caio solo pensando a questa situazione, deve averlo capito e ha giocato, maldestramente forse, la carta del contro tutto e contro tutti sperando in una benevolenza che non si sa da che parte poteva arrivare e infatti non è arrivata. Lo stesso deve aver capito Colaninno che tuttavia con ben altra furbizia ed esperienza ha tratto vantaggio e profitto personale da una situazione ormai compromessa ma che si poteva ancora vendere, cosa che lui ha fatto nel modo più intelligente. Prima di loro Passera ha gestito come farebbe un commercialista esterno cercando di lanciare persone che gli sembravano esperte e fedeli a lui, ma non avendo l’esperienza per capirlo.
Bisogna dire ad onore del vero che si dovrebbe ascrivere agli errori di Carlo De Benedetti fra l’altro quello di non avere saputo gestire in modo dignitoso la fine dell’azienda di cui si era impadronito, che aveva sfruttato e che in un primo tempo aveva anche illuso per poi abbandonarla in un secondo tempo.
Un altro articolo “dirompente” dell’amico Gianni, dopo quello che l’ha preceduto su I valori di una esperienza. E anche questo contributo è finito nello spazio degli Editoriali, perché siamo sicuri genererà interesse e probabilmente commenti da posizioni diversificate.
Ormai sono trascorsi più di 40 anni dall’avvio dell’era De Benedetti e più di un ventennio da quella legata a Telecom Italia. Mentre sulla prima sono apparsi alcuni libri e parecchi articoli non sempre bilanciati, sulla seconda è sceso un imbarazzante silenzio.
Forse è giunto il momento che qualche storico metta in fila gli eventi e le carte, per regalarci, dopo lo stuolo di libri eccellenti sull’epoca dei fondatori Camillo e Adriano, un racconto documentato e completo sulla crisi e la caduta dell’impero olivettiano.
Ci sono ancora parecchi di noi, in buona salute e con buona memoria, che hanno vissuto gli eventi dall’interno e che potrebbero contribuire alla luce delle esperienze dirette.
Dello stesso autore segnaliamo due articoli apparsi sul Web magazine Nel Futuro:
Dopo Adriano Olivetti il potere al primo posto
Gli errori dell’Ingegnere
La ricostruzione del signor Di Quattro pecca d’incompletezza in quanto trascura il fatto che la Olivetti fu vittima di vendetta trasversale da parte del potere politico il cui massimo referente aveva ingaggiato con l’ing. De Benedetti una lotta “all’ultimo sangue” . Ricordo gli articoli che Panorama faceva contro la Olivetti , insomma la Società aveva intorno nella prima metà anni ’90 solo terra bruciata, lo Stato non comprava più nulla . Ciò nonostante l’Ingegnere riuscì inizialmente ad avviare una riconversione creando dal nulla Omnitel ed Infostrada che potevano benissimo rappresentare il futuro dell’Azienda invece della fallimentare fusione con Telecom , le telecomunicazioni le avevamo in casa .
Chi avesse bisogno di un aiutino sulla cronologia degli eventi e sui nomi dei protagonisti dell’epoca può consultare la pagina dell’Associazione Archivio Storico Olivetti dedicata alla Storia aziendale.
Ragazzi! (godiamoci questo ragazzi! perché il più giovane di noi ha almeno ottanta anni)
Ragazzi! E’ tempo, forse, di accantonare la nostalgia che continua a farci sognare un periodo della nostra vita che non può più tornare.
Anch’io, da quando mi sono dimesso nel 1965 – ero ad Ivrea all’Ufficio studi che seguiva la programmazione del calcolatore da tavolo Programma 101, cioè il primogenito del futuro del mondo informatico – non riesco ad accettare il comportamento disfattista di Carlo De Benedetti che aveva solo lo scopo di tentare di salvare il suo disastro finanziario.
Penso però anche che, ormai, dobbiamo tentare di guardare indietro soltanto per godere dell’aver partecipato alla più bella avventura del lavoro che, forse, ci sia mai stata.
Il top management negli anni 90, dopo l’era Cassoni, non era all’altezza del compito, arrogante, con scarse capacità di leadership e visione a lungo termine. Omnitel ed Infostrada? Due scialuppe di salvataggio! Creare valore, si, ma non affondando la nave appoggio.
Poi segui’ un gioco di scatole cinesi. Ricordate quando L’Olivetti era quotata in borsa ed inglobava Telecom Italia? Hanno distrutto la “Italian Silicon Valley”, tanti hanno perso il lavoro e pochi si sono arricchiti.
Completamente d’accordo con il sig. Ballabeni sulla necessità di mettere in fila gli eventi che hanno portato alla fine dell’impero olivettiano.
Purtroppo, nonostante sia entrato in azienda nel 1957, avendo vissuto in produzione, ammetto di non avere percepito granché sugli eventi. Comunque ottimi i commenti sopra.
Sono entrato in Olivetti in epoca tarda, nel 1987, ma in pieno rilancio con i sistemi Unix e l’architettura OSA. Ecco con un gioco di parole si è forse osato poco, si è investito poco in R&D e creduto poco in noi stessi. L’avventura nei sistemi aperti coincise con un progressivo disimpegno industriale, distolto anche dalle operazioni finanziarie extramoenia. Ho visto sempre più una politica di accordi commerciali deferente verso gli altri, tesa forse in realtà a “valorizzare” più la rete commerciale che era considerata (a ragione) la forza dell’azienda. Si dovevano forse creare più accordi di cooperazione nella ricerca e nello sviluppo tecnologico ed applicativo e sinergie strategiche, degne di un azienda che in quegli anni era comunque leader in Europa e tra le prime nel mondo. Un altro problema fu la divisione in tante società che ruppe l’unità dell’azienda, divisione dettata da logiche di prodotto più che di business reali. Un tentativo interessante fu fatto nella divisione PA in cui lavoravo, forse tardivo e forse non aiutato dalla Politica cui eravamo invisi. Quelle scelte della Politica, ex post, si sono dimostrate miopi e hanno danneggiato non solo il sistema industriale del Paese ma anche l’emancipazione digitale con cui siamo ancora alle prese per i ritardi. Poi ci fu l’avventura nelle telecomunicazioni, a cui partecipai nel mio piccolo con Infostrada ma, questo, è un altro capitolo della gloriosa storia.
Entrato in Olivetti nel 1983, ad Ivrea prima, poi Roma, poi Milano, infine Pozzuoli, come già detto in precedenti commenti, ho avuta la FORTUNA di lavorare (ed imparare) sia dagli “ottantenni” di esclusiva cultura OLIVETTI sia da quelli che sono subentrati da altre aziende.
Io credo che questo mix di culture aziendali sia stato necessario per trasformare una azienda di macchina da scrivere, nella seconda azienda informatica in Europa e sesta, mi pare, nel mondo (mi riferisco al decennio 1985 – 1995).
Era un vanto entrarci per molti giovani come me che provenivano dalle università italiane, e ricordo che Olivetti era tra le poche aziende informatiche che “pescava” nelle università italiane giovani laureati da “riformattare” ed inserire sul lavoro, quello vero, non sul teorico studiato in aula, e per questo forse i “colloqui e test” puntavano giustamente molto di più a capire la persona che le sue competenze tecniche.
Per chi ha avuto la fortuna di cominciare a lavorare ad Ivrea, ha potuto apprezzare come gli italiani erano apprezzati quando arrivavano a supporto delle consociate europee e americane: ci si è sempre sentiti orgogliosi dell’appartenza ad OLIVETTI soprattutto perchè i manager (cioè gli ottantenni o quelli provenienti dall’esterno, non ti abbandonavano mai (non dimenticherò mai per esempio quello che Pierluigi Bonanate, prima capo consociata in Finlandia poi Direttore Commerciale in HQ ad Ivrea, ha fatto per me, e sono certo per altri giovani spediti all’estero per fare esperienza, aiutandomi a superare le difficoltà di questi primi impatti con mondi e culture sconosciute!
Quindi ringrazio Gianni che tirando fuori questo tema nel suo graditissimo post, ci sta consentendo di confrontarci anche se non siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda … ma questo è una delle cose che proprio in Olivetti abbiamo imparato a gestire, o no?
Riconosco e ringrazio il mio imprint professionale e poi diventato obiettivo evolutivo iniziato a fine1959 nella nascente Olivetti Div. Elettronica sull’Elea 9002 in via Clerici. Innovazione della tecnologia e dell’insieme trainante dal management, al team working ai risultati.
Ho cercato di dimenticare, invano, un paio di riunioni presiedute dall’entrante Carlo De Benedetti che cercava di giustificare la caduta degli Dei, con una scala di valori-intenti-impulso che era di un altro mondo banalizzato.
Concordo con Di Quattro e Ballabeni, soprattutto perchè la magica eccezzionalità Olivettiana possa ancora essere perseguibile nel-dal nostro Paese, studiandone a fondo la formula della nascita-successo ma anche certamente quella della sua disgregazione, .
Era chiaro che Gianni Di Quattro aveva toccato un nervo scoperto. Per di più siamo in un terreno che non è ancora storia ma è quasi ancora cronaca più o meno viva.
E tutti molto interessanti i commenti che guardano alla vicenda da punti di vista anche molto differenti ma accomunati da passione.
C’è chi non guarda male alla vicenda telefonia ma piuttosto all’operazione Telecom Italia; e chi invece (fra questi c’era il caro compianto Mario Ciofalo, peraltro accusabile di… conflitto di interessi) insiste nel dire che si sarebbe dovuto proseguire coi sistemi, credendoci e investendo di più e meglio.
Niente è semplice. Non dobbiamo dimenticare sullo sfondo il fardello costituito dai prodotti per ufficio e, nei tempi più recenti, dai PC.
Gianni ha ragione in molte parti della sua argomentazione, ma il collega Luciano Martocchia, che non conosco, ha una posizione che rispecchia un po’ la mia.
La proposta di Mauro di por mano a una ricostruzione dei fatti (una Olivetti – CDB e una Olivetti post-CDB) è molto stimolante e forse si potrebbero raccogliere candidature. Io ci potrei anche stare.
Ma non dobbiamo nasconderci che ci vuole molto tempo e molta pazienza: non a raccogliere le candidature intendo, ma a mettere insieme fatti, documenti, testimonianze, dati ecc.,
Vorrei aggiungere due considerazioni:
1) tutti i colleghi hanno letto “Sogno di un’impresa” di Piol, “La Olivetti dopo Adriano” di Citelli-Piol e – sia pure meno attinente – ” Oltre le occasioni perdute”di Fubini?
Molte considerazioni utili vi sono contenute.
2) La pregevole idea di Mauro dove però approderebbe? A un libro, a una tavola rotonda, ad un enorme articolo? Da pubblicare dove? E ci sarebbe un interesse, oltre che da parte dei reduci e fuorusciti? Forse sì, mah
Solo ora, dopo diversi giorni, faccio un commento all’articolo di Gianni, brillante e interessante come sempre. Mi hanno interessato in particolare gli interventi di Luciano Martocchia e di Ugo Panerai. Sì, si poteva capire che l’Azienda stava scivolando e si concorda sicuramente che l’alta Dirigenza non ha preso iniziative efficaci per resistere a questa tendenza e tentare con forza un rilancio. Senza voler minimamente trascurare nè gli argomenti di Gianni, né quelli degli ex colleghi, mi permetto di aggiungere due considerazioni sulle cause aggiuntive che hanno dato un forte contributo alla fine dell’Azienda:
– Olivetti nel suo settore principale dell’informatica era drammaticamente isolata in Italia per quanto riguardava le aziende italiane produttrici di soluzioni IT e questo la condannava alla mancanza di scambi di talenti e di Dirigenti di rilievo, a differenza dei soliti Stati Uniti dove la moltitudine di aziende di ogni dimensione – anche escluse le maggiori – generava e genera ancora oggi “trasfusioni e migrazioni utili di professionisti e Manager capaci. Quindi mancava un confronto e anche delle sfide a competere con altre aziende che avrebbero potuto incitare – per concorrenza o anche imitazione – a prendere nuove iniziative. Mi permetto di osservare che la stessa cosa è avvenuta anche in Germania Occidentale, in Inghilterra e in Francia, contribuendo secondo me alle scomparsa delle principali e isolate aziende informatiche di quei Paesi.
– Nel periodo della decadenza Olivetti l’Italia registrava a mio avviso un forte declino industriale delle aziende molto tecnologiche (c’è a tal proposito anche un articolo interessante di Luciano Gallino del 2004). Cioè Olivetti in decadenza per suoi motivi interni e per una dirigenza top per nulla all’altezza delle necessità, si trovava in un ambito industriale nazionale non competitivo che potesse spingerla sulla via dell’innovazione. Ciò ripeto non giustifica quanto accaduto, né le mancanze/forti negligenze di chi avrebbe dovuto guidarla a reagire e ad intraprendere nuove iniziative. Ma a mio avviso l’environment industriale era piuttosto mediocre e tale da favorire il declino.
E’ chiaro che una personalità come quella dell’Ing. Adriano avrebbe saputo reagire a tutto ciò e a continuare a spingere lo sviluppo. Ma il confronto con chi l’ha sostituito fornisce un risultato semplicemente “nullo”.
Con quanto sopra ritengo comunque molto utile continuare ad analizzare le cause interne del declino e a fare un rapporto su quanto successo – o non fatto – all’interno.
Federico Corradi