Rinascimento e “stile Olivetti” al centro delle architetture olivettiane patrimonio UNESCO
di Giuseppe Silmo
Ivrea nasconde nella Chiesa del Convento di San Bernardino una perla rinascimentale. Chiesa che, da luogo di bivacco di soldati nelle guerre che hanno attraversato il Piemonte dal Seicento all’Ottocento, diventata per lungo tempo fienile, ha custodito e salvato, proprio per questo, una meraviglia: il ciclo pittorico di Gian Martino Spanzotti sulla “Vita e Passione di Cristo”, sino all’acquisto del Convento da parte di Camillo Olivetti, agli inizi del Novecento, per farne l’abitazione della sua famiglia.
San Bernardino, il “Convento”, posto al centro del mondo olivettiano, patrimonio UNESCO non solo per le architetture, ma per i suoi valori intangibili sociali e culturali, è parte integrante del comune sentire di chi ha lavorato alla Olivetti di Ivrea. La Chiesa fu costruita dai Frati Minori Osservanti tra il 1455 e il 1457 e ampliata nel 1465, ricavandone un tramezzo a tre arcate, su cui Spanzotti espresse, tra il 1480 e il 1490, la sua arte. Gli affreschi fatti restaurare da Adriano Olivetti tra il 1955 e il 1958, rappresentano un aspetto peculiare dello “stile Olivetti”: la capacità di integrare la cultura industriale e tecnologica con quella umanistica e artistica, che troviamo già nell’Asilo realizzato da Luigi Figini e Gino Pollini tra il 1939 e il 1940, dove “le decorazioni dei corridoi sono ingrandimenti fotografici colorati di dipinti di maestri del Rinascimento italiano” (Ing. C. Olivetti & C., S.p. A., Servizi e assistenza sociale di fabbrica, Ivrea 1963, p. 30).
Al “Convento”, sede, dal dopoguerra, del Gruppo Sportivo e Ricreativo Olivetti (G.S.R.O) e centro della socialità, non solo di fabbrica, ci si trovava alla sera, per fare quattro chiacchere, una partita a carte, giocare a tennis oppure a bocce, o per seguire discussioni su argomenti vari o ancora partecipare, al piano superiore, a corsi assolutamente liberi su varie materie, tra cui, negli ultimi anni Sessanta, Sociologia e Psicanalisi (tenuti rispettivamente da Gian Antonio Gilli e Giancarlo Baussano dei Centri di Sociologia e Psicologia della Olivetti) che io e Anna, da poco sposati, frequentavamo. La Chiesa veniva a volte aperta durante il giorno per mostre, da quelle fotografiche sulla vita aziendale (ora pubblicate in un libro dalle Spille d’Oro) a quelle di pittori contemporanei. Proprio in occasione di una di queste la mia attenzione si spostò rapidamente sullo Spanzotti. Ne fui straordinariamente colpito. Allora la parete spazzottiana era fresca di restauro. Il Centro Culturale Olivetti, nella figura del critico d’arte Giovanni Testori, né aveva pubblicato un saggio, con la veste tipografica curata da un’altra grande firma olivettiana, Egidio Bonfante.
Non avevo ancora letto lo scritto di Testori, ma l’impressione che ne ricavai era quella di una pittura di grande livello artistico che ti affascinava, perché parlava direttamente alle persone e trasmetteva con forza e immediatezza il messaggio della Vita e Passione di Cristo, senza mediazioni culturali. Mi colpirono soprattutto i volti delle persone, da quelle del popolo a quelle dei personaggi di rilievo, volti che, al tempo del dipinto, avresti potuto incontrare ovunque, da quel volto semplice di una giovane contadinotta della Madonna, a quello di San Giuseppe e persino dei Re Magi, ma anche a quello di Caifa o di Pilato. Nel guardare le varie scene rappresentate non poteva non venirmi in mente la Passione di Sordevolo, paese dei miei genitori, dove, da tempo immemore, a recitare sono gli abitanti, con i loro volti, da cui traspare la fatica del viver quotidiano, come nella parete di San Bernardino. Forse per questo ne fui così attratto. Un dipinto fatto per il popolo, non per ricche committenze a cui dare lustro, non per celebrare eventi, ma non per questo meno importante e parimenti di grandissima arte pittorica.
Allora, la mia cultura artistica si era formata anche grazie all’opportunità che ebbi di visitare gli Uffizi durante il corso di venditore al Centro Istruzione e Sviluppo Vendite (CISV) della Olivetti a Firenze. In quell’occasione ebbi anche l’incolmabile fortuna di vedere, un mese prima dell’alluvione del 1966, il Crocefisso di Cimabue in Santa Croce. Poi venne la stupenda lettura del testo di Testori, anche se, almeno per me, a quel tempo, non fu facile capirne tutti i riferimenti. Quella lettura mi aprì al Rinascimento Lombardo e in genere del Nord Italia, in cui Gian Martino Spanzotti si formò. Ebbi la conferma che il ciclo pittorico fu voluto dal committente, i Frati Minori Osservanti, per essere rivolto alla gente comune, avendo l’esigenza di disporre durante le prediche di una sorta di Vangelo parlante per il popolo.
Spanzotti, si è dimostrato in grado di interpretare in modo esemplare tale necessità. Gli affreschi ci permettono, infatti, di constatare, che le scene rappresentate conferiscono al racconto la verità dell’esperienza umana, che è propria degli umili. Qui occorre lasciare la parola al Testori: «È una nobiltà nuova quella che si fonda in questi anni nel Nord dell’Italia e alla quale lo Spanzotti offre questo suo inconfondibile tono: una nobiltà umana, anziché umanistica; il fatto riportato alle sue proporzioni reali e quotidiane, contro il fatto dilatato dall’iperbole dell’ideologia; il profondo del particolare, infine, contro l’esteso dell’universale» (Testori Giovanni, Giovanni Martino Spanzotti. Gli affreschi di Ivrea, Ivrea, Centro Culturale Olivetti, 1958). Parole che mi hanno permesso di capire appieno gli affreschi del tramezzo di San Bernardino.
Gian Martino Spanzotti è un’eccezionale riscoperta dell’arte piemontese, “configurandosi come un punto fermo dello sviluppo dell’arte rinascimentale in Piemonte” (A. Rovereto, Il Convento di San Bernardino in Ivrea e il ciclo pittorico di Gian Martino Spanzotti, Priuli & Verlucca, Editori, Ivrea 1990). Il pittore è stato a lungo poco conosciuto, in particolare per gli affreschi di San Bernardino, rimasti fino all’inizio del Novecento senza autore. Tutto cambia con l’attribuzione a Spanzotti del Trittico della Galleria Sabauda di Torino: Madonna in trono tra i Santi Sebastiano e Ubaldo, nel 1899 da parte del critico d’arte Baudi di Vesme. Ma è Lisetta Ciaccio che nel 1904, attribuisce gli affreschi di San Bernardino a Spanzotti, proprio partendo dal comparto centrale del Trittico, dove la Madonna con il bimbo è praticamente la copia, come ho voluto vedere di persona, rimanendone fortemente impressionato, di quella dipinta sulle prime quattro scene del tramezzo di San Bernardino: l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Re Magi e la Fuga in Egitto. Lo stesso volto incarnato di rosa dai tratti morbidi, gli stessi capelli sciolti.
Non voglio certo annoiare i lettori con una descrizione e un commento dei venti affreschi disposti intorno al grande riquadro centrale, su cui è rappresentata la crocefissione, ma due forti emozioni che ho provato queste voglio trasmetterle. Non sono certo quelle di un critico d’arte, ma di un osservatore che ha a lungo osservato e amato quella parete parlante.
La prima: l’uso della luce e del chiaroscuro. Nella prima serie di affreschi nella parte superiore del tramezzo, dall’Annunciazione all’Adorazione dei Re Magi, quella luce chiara soffusa che Testori chiama “luce violetta”, con il procedere delle scene si scurisce, nella seconda fila di scene, che iniziano con L’Ultima Cena e il successivo Lavaggio dei piedi, la luce diventa sempre più grigia, per passare ai chiaroscuri sempre più cupi, dalla preghiera nell’Orto, che nella Passione di Sordevolo chiamano del Getsemani, alla Cattura di Cristo, dove tutto raggiunge il massimo di cupezza. Straordinaria sottolineatura dell’evolversi degli eventi, da quelli del trionfo della vita e della speranza, a quelli sempre più tragici, ma anche una straordinaria anticipazione del chiaroscuro del Caravaggio.
La seconda: il riquadro centrale con la Crocefissione, soggetto questo trattato da molti artisti rinascimentali, ma che in Spanzotti raggiunge una profonda intensità umana. I volti di Cristo e dei due ladroni sono autentici, veri, non trasfigurati dall’arte. Ma quello che più mi ha colpito è quell’arrivo di corsa, dal vallone alle spalle del Golgota, della Maddalena, accompagnata dalle altre pie donne, trafelata e scarmigliata, che urla la sua disperazione e vorrebbe arrivare ancora in tempo a vedere Cristo.
Anche questo per me è stato ed è Olivetti.