Adriano Olivetti
Un giorno Tchou annunciò a tutti che avremmo avuto la visita dell’ingegner Adriano. A Ivrea lui era conosciuto così.
Fummo presi da grande agitazione perché da quella visita poteva dipendere il nostro futuro, ma la sedammo dandoci da fare a ripulire cablaggi, a toglierli da terra per farli passare in modo più elegante, a rimuovere i fili appesi ai rack che era inevitabile inserire mentre si provava qualcosa. Sono certo che tutti noi mandammo a lavare i nostri camici bianchi. Per l’occasione preparammo un programmino che riusciva a mostrare le 4 operazioni aritmetiche; non bisogna meravigliarsi, questo era stato il primo vagito della Zero. La mia unità di stampa fuori linea stava anch’essa nel capannone insieme all’Unità Centrale della Zero e gli avevamo attaccato una stampante della Bull francese, anche questa di bella meccanica ricca di fantasia, ma molto delicata.
Allora non esisteva quello che oggi si chiama “software” e si programmava in “linguaggio macchina” vale a dire bit per bit, ossia con le cifre “0” e “1”, e istruzione per istruzione. Le istruzioni dicevano alla macchina che cosa doveva fare e dove andare a mettere i risultati, ma fare un programma complesso significava metterne insieme molte migliaia e ogni volta bisognava provare per vedere che cosa succedeva. Non esistevano neppure i “softwaristi”, quelli che oggi sono capaci di usare complicati linguaggi automatici di programmazione; questi personaggi li inventammo qualche anno più tardi con una laboriosa trattativa sindacale intesa a definire il ruolo di questa nuova e sconosciuta mansione, si può immaginare con quali difficoltà di comprensione da parte dei sindacati metalmeccanici dell’epoca, cui dovevamo riferirci per la nostra appartenenza al Gruppo Olivetti.
Adriano Olivetti arrivò puntuale la mattina del giorno stabilito. La nostra ansia si era tramutata in curiosità e interesse per questa persona, che noi tutti giudicavamo essere un imprenditore “illuminato”, come si diceva a quei tempi quasi avesse ricevuto lo Spirito Santo.
Tchou gli fece fare il giro dei vari laboratori di progettazione e ci presentò al Grande Capo. Adriano strinse la mano a tutti indistintamente e con tutti s’interessò del lavoro che facevano, poi entrò nel capannone dove la Zero era in bella mostra, si fa per dire, ma per noi che l’avevamo messa insieme così com’era era anche bella.
Gli facemmo vedere che sapeva fare le quattro operazioni aritmetiche inserendo i dati con la tastiera della telescrivente. Fu richiesto il risultato di 4×4 e subito la Zero stampò 16. Adriano osservò qualche minuto quei rack pieni di pannelli e di fili, con le lampadine al neon che baluginavano a segnalare che dentro c’erano calcoli in corso, e poi disse: «Certo è un modo un po’ costoso di usare una telescrivente».
Lì per lì ci rimanemmo male, ma poi lui si ritirò a discutere nell’ufficio di Thcou e quando se ne fu andato il nostro Direttore annunciò che Adriano era rimasto soddisfatto da ciò che aveva visto e che era deciso a continuare. La macchina Zero sarebbe stata finita, inglobata in un armadio di bell’aspetto e mandata a Ivrea per occuparsi della gestione dei magazzini. Insieme con la nostra stampante fuori linea, naturalmente, perché i risultati del calcolo potevano essere letti solo su carta stampata. Con lei sarei andato anch’io a Ivrea per un paio di mesi per installarla e farla funzionare.
Fu così che conobbi da vicino il mondo eporediese dell’Olivetti dal quale eravamo rimasti a lungo segregati.
“Stampa Camillo”
A Ivrea la Zero fu sistemata silenziosamente e con discrezione in un salone della Direzione amministrativa ed era a disposizione del dottor Franchetto, il responsabile dei magazzini, che sentiva molto l’importanza del compito che gli era stato assegnato, anche perché tutta l’Olivetti teneva gli occhi puntati su di noi e quindi su di lui. Ivrea è una piccola città e si sa tutto di tutti, e il nostro arrivo, nonostante la grande riservatezza con cui si era svolto, era stato subito notato.
A gestire l’Unita Centrale della Zero c’era il signor Mondino, un perito industriale di grande esperienza che faceva parte del gruppo di Flip, e con lui mi pare di ricordare che collaborasse il signor Desperati, esperto di unità centrale e capace di programmare. Con me c’era il mio diretto collaboratore, il signor Cavalli, un bresciano delle parti di Iseo, un solido lavoratore di poche parole ma molto intelligente, con cui lavoravo molto bene. Ciao Cavalli, dove sarai adesso?
Cavalli e Desperati erano due ragazzi molto creativi, così gli venne in mente di ricostruire con la stampante Bull l’immagine del fondatore della Olivetti, l’ingegnere Camillo, che era esposta in tutti gli uffici di Ivrea, proprio come si usa con i Presidenti della Repubblica negli uffici statali. Si trattava di fare un sapiente uso delle “x”, degli “=”, delle “i”, e così via per simulare i chiaroscuri dell’immagine, ponendoli uno a uno al posto giusto nella riga e nella colonna di stampa; bisognava solo fare attenzione che non capitassero troppi caratteri tutti eguali sulla stessa riga, come poteva succedere sull’ampia barba del Fondatore, perché a quel punto la macchina faceva fatica a tirare su tante colonne di stampa tutte insieme, e l’inerzia di queste masse in movimento le dava un colpo tale che si sfasciava in un turbinio di mollette e rotelline.
Quando lo provammo ne venne fuori una cosa dall’effetto davvero entusiasmante. La consegna che avevamo ricevuto era di mantenere la riservatezza e di non fare entrare curiosi, ma nonostante ciò non si riusciva a tenere fuori tutti. Purtroppo qualche copia dell’immagine stampata di Camillo sfuggì al controllo e uscì dalla nostra sala, così ci ritrovammo con delle code di impiegati Olivetti fuori della porta che imploravano per avere uno “stampa Camillo”, come noi avevamo chiamato il programmino che le produceva. Noi l’avevamo fatto con il rispetto che il Fondatore meritava: in fondo lui aveva inventato la prima macchina scrivente dell’Olivetti e dalla tomba magari gli avrebbe anche fatto piacere di vedere che cosa era stata capace di fare la nuova generazione di suoi collaboratori con un sistema di stampa che ai suoi tempi non poteva neppure essere immaginato. Tuttavia, la cosa non fu apprezzata allo stesso modo nelle alte sfere olivettiane e dall’Ufficio personale ci venne l’ingiunzione di smettere perché, secondo loro, era una cosa disdicevole per la memoria del Fondatore.
La macchina Zero cominciò a lavorare a due turni assistita da due nostri tecnici, e con grande soddisfazione dell’amico Franchetto produsse grandi quantità di informazioni stampate. Questo primo successo garantì l’ingresso dell’elettronica a testa alta nel mondo tutto mini-meccanica dell’Olivetti di Ivrea, e ne avrebbe condizionato il futuro. ** segue