La foto di gruppo
Per la mia laurea mio padre mi aveva regalato una macchina fotografica. Era prodotta dalle Officine Galileo di Firenze e per l’epoca era di ottime prestazioni. Naturalmente non aveva messa a fuoco né regolazione automatica dell’apertura del diaframma e bisognava fare tutto a sensazioni, tuttavia il risultato che si aveva, se era buono, dava grandi soddisfazioni. Una mattina chiesi a Tchou se potessi fare una fotografia al nostro gruppo insieme con lui, e aderì di buon grado.
In piedi da sinistra: Giuseppe Calogero, Franco Filippazzi, Mario Tchou, Remo Galletti (con la giacca), Paolo Grossi, Sergio Sibani, Giorgio Sacerdoti.
Sotto da sinistra: Lucio Borriello, Simone Fubini, Ottavio Guarracino, Gianfranco Raffo
Questa fotografia è l’unica che esiste di quei tempi. Ci sono tutti quelli che lavoravano in quel momento a Barbaricina, vale a dire Filippazzi, Galletti, Tchou, Grossi, Sibani, Borriello, Fubini, Guarracino, Raffo e anch’io. Mancava solo Martin Friedman, che quella mattina era fuori, e Luciano Nicelli, un ingegnere di Piacenza che si era un po’ sfasciato in un incidente con la Vespa, e si sarebbe unito a noi solo molti mesi dopo. Tra gli altri c’era Grossi, un ingegnere romano con la barba, che era anche il più vecchio di tutti noi, ma non mi riuscì mai di capire il ruolo che avesse.
La foto fu scattata dal custode, che per fortuna riuscì a inquadrarci bene. Lui era uno del tutto normale, ma certo in mezzo a tutti quei geni non figurava.
Lucio Borriello
Ingegnere romano, Lucio detto Bhor, mi apparve come una persona dal
tratto molto signorile anche dotata di un bel senso di humour, infatti dopo
pochi giorni mi diede un singolare soprannome.
Lui lavorava all’ultimo piano, nella torretta della villa di Barbaricina e per questo era un po’ preso di mira da chi non era riuscito a conquistarla prima di lui.
Ora non ricordo a che gruppo appartenesse; quello che ricordo è che era sempre molto disponibile a dare spiegazioni a chi gliele chiedeva. Io ero tra questi, perché lavorando alle unità “fuori linea” ero anche un po’ “fuori” dai problemi della “unità centrale” che pure molto mi interessavano.
Santerini e l’Ufficio Acquisti
I primi tempi che ero a Pisa non c’era chi comprasse i materiali che ci servivano e ogni gruppo si arrangiava da sé. Un giorno, proveniente da Ivrea, arrivò da noi l’ingegnere Corrado Santerini, un giovane livornese. All’inizio, tutti quelli di Ivrea erano sempre visti da noi con un minimo di sospetto perché si era capito che era meglio starne lontani, anche se nessuno ce l’aveva mai detto chiaro.
Si era capito che non potevamo andare avanti a comprarci su piazza le mille cose strane che ci servivano, e molte a Pisa neppure c’erano; allora su richiesta di Tchou gli Uffici acquisti di Ivrea ci mandarono Santerini, un ingegnere esperto di acquisti tecnici.
Corrado era un tipo aperto e sincero e si fece subito accettare da tutti. Nel suo lavoro di ricerca di materiali strani – i nostri lo erano quasi tutti – era bravissimo. «Chiedetemi quello che volete, spiegatemi perché vi serve e io lo trovo e ve lo compro, basta che ci sia la firma del Capo.».
Una volta, mi pare che fosse Joe Elbling, un altro canadese che studiava il Controllo Numerico, un particolare calcolatore elettronico capace di pilotare i movimenti di una macchina utensile, gli chiese un canarino. «Un canarino? O a che ti serve un canarino?». «Tu non te ne occupare, a me serve e tu me lo compri.». Santerini questa volta s’incazzò: «Se non me lo dici io non ti compro un bel nulla. Che credi che se qui viene uno a chiedermi un quadrimotore della Douglas io vado da Tchou e gli dico che c’è da comprarlo perché uno di qui lo vuole? Mi manderebbe a pascolare e c’avrebbe pure ragione.».
Non so se poi il canarino fu comprato. La povera bestiola sarebbe servita a vedere che non si sviluppassero gas venefici in un laboratorio dove si facevano esperimenti con dei prodotti chimici.
Tra i veterani di Barbaricina l’amico Corrado è stato il primo ad andarsene.
La contabilità industriale
Un giorno Thcou ci presentò un distinto signore mandato da Ivrea, di cui non ricordo il nome, e lo definì come il suo Assistente amministrativo. Nessuno di noi capì bene che cosa avrebbe fatto, ma tra noi anche lui ci stava bene, come tutte le persone inserite da Tchou.
La prima cosa che fece introdusse una piccola gestione del magazzino componenti e i “buoni di prelievo”. Fino allora avevamo in ogni laboratorio un armadietto a cassetti contenenti i vari componenti elettronici che ci servivano e che prendevamo mano a mano che si facevano delle prove circuitali, ed eravamo liberi di attingervi senza renderne conto. Da quel momento non lo potemmo più fare e la cosa seccò un po’ tutti, non tanto per la limitazione di disponibilità immediata che ne sarebbe conseguita, ma perché ci apparve come una mancanza di fiducia.
Io ho sempre cercato di capire le ragioni delle scelte, perciò le andai a chiedere al Capo. Thcou fu come al solito chiaro e gentile. Mi spiegò che fino a qualche anno prima nell’Olivetti non esisteva una contabilità orientata ai singoli prodotti che si fabbricavano, perché all’atto pratico si comprava il ferro a 400 lire il chilo e lo si rivendeva a 5000 sotto forma di macchine per scrivere, quindi con un forte valore aggiunto e con un margine di contribuzione sui costi diretti veramente imbattibile, che però consentiva di coprire anche molti errori di gestione. La gran ricchezza così prodotta aveva consentito di fare investimenti e di sviluppare l’Azienda a tassi elevatissimi, ma l’inevitabile trasformazione dei prodotti, ad esempio verso l’elettronica, avrebbe certamente limitato questo vantaggio.
Inoltre il nostro era un settore molto innovativo e a Ivrea ci potevano accusare di spendere soldi senza che fatturassimo ancora nulla, perciò era meglio che ci facessimo bene i conti in tasca da noi stessi. Questa era la Contabilità industriale. Senza accorgercene stavamo diventando una parte dell’Impresa Olivetti. E questo fu dovuto a Mario Tchou, che non era solo uno scienziato, come molti credevano; per quei tempi lui era anche un grande manager. ** segue