Mario Tchou
Il nostro Capo era un uomo molto simpatico, sebbene si tenesse giustamente a distanza da tutti noi e noi altrettanto da lui. per il rispetto che si meritava.
Parlava un perfetto italiano con un leggero accento romano. Era il figlio dell’Ambasciatore presso il Vaticano della Cina nazionalista di Chang Kai-shek (per intenderci non quella che fu poi di Mao Tse-tung), perciò era vissuto a lungo a Roma dove aveva frequentato un nostro liceo. Poi era andato negli USA a studiare alla Columbia University, dove era entrato nel nascente mondo dei computer e dove Adriano Olivetti l’aveva catturato. Bel colpo! Un ingegnere cinese che sapeva di computer e che in più parlava un perfetto italiano.
A parlare con lui si aveva l’impressione che fosse più di cultura italiana che cinese, ma non era così. Una volta d’estate m’invitò a pranzo in un buon ristorante di Pisa, forse perché voleva conoscermi meglio, così ebbi modo di conoscerlo anch’io da vicino. Era un uomo molto simpatico, aperto, con un buon senso dell’umorismo. Mi spiegò gli essenziali della cultura cinese e in particolare mostrò un’eccellente conoscenza della sua cucina, ma apprezzava molto anche quella romana. Passammo insieme un paio d’ore molto gradevoli e solo più tardi capii il motivo di quell’invito.
Quando misi casa a Pisa abitavamo nella stessa strada, vicino al ponte Solferino. Lui era sposato con un’italiana, Lisa Montessori, una donna di un certo fascino. Era una giovane pittrice che poi diventò molto nota nel mondo dell’arte moderna astratta, ma non si faceva mai vedere a Barbaricina, né teneva relazioni con le mogli dei ricercatori dei Laboratori. Dopo la morte prematura di Tchou ebbi modo di conoscerla di persona e ancora oggi siamo legati da una solida amicizia.
Mario Tchou lasciò questo mondo in un brutto incidente d’auto sulla Torino/Milano mentre andava a Ivrea in un’umida giornata di pioggia. In quel periodo l’autostrada era in fase di allargamento a doppia corsia per senso di marcia e veniva anche livellata per liberarla dalle ondulazioni della campagna, perciò in certi punti della carreggiata c’erano ai lati delle alte pareti di sassi tenuti dentro cestelli di rete metallica. La Mercury di Tchou slittò sul fondo bagnato nel tentativo di evitare uno scontro frontale con un camion e andò a sbattere con un fianco su una di quelle pareti di sassi e per reazione vi batté contro anche la sua testa. Nell’incidente morì anche l’autista, un ragazzo di
Milano. Toccò a me portare alla vedova le condoglianze dell’Olivetti. Già, perché da un anno io ero passato dalla ricerca alla direzione del personale dei Laboratori Elettronici e questa bisogna faceva parte del mio nuovo ruolo.
Noi non ci rendemmo conto subito della perdita che avevamo subìto. Mario Tchou ci aveva fatto da scudo e protetto contro tutte le beghe e le invidie che senza di lui ci sarebbero cadute addosso provenendo dalle valli eporediesi. Per fare un esempio, avevamo iniziato da poco a Borgolombardo la produzione dell’Elea 9003 e il Direttore delle Produzioni dell’Olivetti – non ricordo chi fosse, ma è certo che non ha lasciato un segno nella storia – che però non aveva avuto l’incarico di acquisire nel suo dominio anche la nostra, una mattina si presentò senza farsi prima annunciare e senza andare prima a salutare Tchou. Fece solo un rapido giro per la fabbrica e se ne andò così come
era venuto. Aveva voluto far capire che quello era un suo territorio, proprio come fanno i gatti. Meno male che, come i gatti, non fece anche la pipì negli angolini. Ma Tchou dovette tener duro, perché non finimmo sotto l’egida di questo personaggio, che invece a Ivrea era considerato una potenza.
La camera ardente di Tchou fu allestita al pianterreno della fabbrica di Borgolombardo, dove ormai producevamo il nostro calcolatore tutto a transistor. Al funerale sei di noi, tra cui Ottavio Guarracino e io stesso, portammo a spalle la bara. Mi accorsi che singhiozzavo per la prima volta nella mia vita e mi pare di ricordare che davanti a me Ottavio facesse lo stesso. Noi ragazzi di Barbaricina avevamo perso il nostro Méntore. Era finita l’era del lavorare gioioso, e ora avremmo dovuto affrontare le difficoltà che la vita ci stava preparando. E sarebbero state tante. ** segue