A Barbaricina

La mattina dopo uscii per le strade di Pisa e chiesi a un tassista dove fosse Barbaricina e come fare per arrivarci. Era fuori città dalle parti della pineta di San Rossore e ovviamente non c’erano mezzi pubblici, perciò me lo prenotai per il 1° novembre alle 8 in punto. Tornando in albergo notai una strana macchina parcheggiata lì davanti. Era una vettura d’epoca, forse degli anni ‘20, una decappottabile che aveva perso la cappotta, tanto che sembrava una vasca da bagno con le ruote. Era stata trattata un po’ male perché era verniciata a pennello di un incerto color celeste. La ritrovai a Barbaricina la mattina dopo. Era di un certo Webb, un giovane canadese dall’aria malconcia, un po’ un precursore dei Figli dei Fiori, che forse sarebbe stato assunto anche lui nei LRE. La macchina era una Trojan inglese, come mi disse Webb con un certo orgoglio; aveva uno strano cambio che le consentiva di passare da marcia avanti a marcia indietro con grande facilità senza l’uso della frizione, perciò quando faceva manovra sembrava di vedere una comica di Chaplin.

A Barbaricina gli LRE erano ospitati in una villetta fine ‘800 a tre piani con ampio giardino, un po’ fuori del paesino, tutto dedicato ai cavalli da corsa che svernavano lì o vi finivano in pensione come stalloni. Gli abitanti erano principalmente fantini, piccoli e con le gambe un po’ storte per stringere meglio i fianchi delle loro cavalcature. La mattina i cavalli uscivano a fare una passeggiata tra i boschi e tra loro ce n’era uno famoso a quei tempi: si chiamava Ribot e aveva vinto tutti i premi possibili a livello internazionale, perciò doveva valere un patrimonio.  A incrociarlo in macchina per andare al lavoro stavamo tutti molto attenti a fermarci a debita distanza per non spaventarlo.

A Barbaricina mi accolse con grande cortesia una bionda e distinta signora, la segretaria di Mario Tchou. Attesi pochi minuti e fui ricevuto dal Capo. Tchou era un bel cinese, alto dai folti capelli, neri e lisci,  occhi a mandorla dallo sguardo penetrante, e un sorriso franco. Mi diede il benvenuto e mi disse che avrei lavorato per Martin Friedman, un ingegnere canadese esperto di memorie e di elettronica a transistor, che era il capo del gruppo di progetto delle unità “fuori linea” della macchina “Zero”, vale a dire stampanti, lettori e perforatori di schede. “Fuori linea” significava che questi terminali i dati li ricevevano da un supporto magnetico (oppure da una scheda perforata), creato in tempi precedenti dal calcolatore, e poi caricato su un’unità esterna per stampare, oppure leggere o perforare schede.  Questa operazione si chiamava “batch processing”.

La “Zero” era il primo prototipo del nostro calcolatore elettronico che serviva per verificare l’architettura hardware del sistema; questa era quasi tutta fatta con tubi elettronici di due tipi: Triodi e Pentodi, che consumavano una gran quantità di energia elettrica e producevano un gran calore. Inoltre si rompevano abbastanza spesso, perciò l’affidabilità della macchina era abbastanza bassa. L’idea vincente degli LRE era stata di trasformare la macchina a transistor, perché le potenze in gioco erano enormemente più basse e l’affidabilità estremamente più alta, così si poteva affrontare con buone speranze di successo un mercato che era ancora tutto da formare. Tuttavia, nessuno mai aveva ancora fatto una macchina complessa con qualche migliaia di transistor, come invece facemmo noi per primi.

Nella Zero, peraltro, solo alcune parti molto sperimentali erano fatte esclusivamente con i transistor; se non ricordo male, si trattava del controllo delle unità a nastro, di cui si occupava Simone Fubini, un ingegnere torinese, e di parte dell’unità aritmetica progettata da Remo Galletti, un ingegnere triestino dal carattere aperto, forse l’unico tra noi abbastanza esperto di elettronica e perciò da tutti considerato con grande rispetto.

Questo prototipo era stato realizzato nelle sue varie parti dai singoli gruppi di progettazione che lavoravano nelle varie stanze della villetta. Una volta terminate, queste parti furono messe insieme in un piccolo capannone provvisorio costruito nel giardino. La macchina Zero era montata su rack standard, strutture metalliche su ruote fatte apposta per avvitarci su i pannelli con l’elettronica, e a vederla si aveva l’impressione di un grande disordine, di cose messe insieme a caso, con grovigli di fili e cavi elettrici, molti dei quali correvano sul pavimento. La tastiera era fatta da una telescrivente Olivetti e si potevano anche infilare dati in macchina con il relativo lettore di nastro perforato.

Con me Tchou fu molto gentile, mi spiegò che come primo lavoro avrei dovuto costruire io stesso un alimentatore di tipo particolare, perché per dirigere degli operai bisognava sapere che cosa significasse lavorare con le mani. La cosa non mi dispiacque, e glielo dissi, perché fin da bambino io avevo sempre usato le mani per costruire qualcosa. Poi mi portò in giro per i laboratori e mi presentò ai miei futuri colleghi, prima di tutto a Martin Friedman. ** segue

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