Il mio primo colpo di fortuna
In questo primo ricordo racconto come fu che mi trovai a Barbaricina di Pisa la mattina di un freddo giorno del novembre 1956.
Nel luglio di quell‟anno mi ero laureato in ingegneria industriale elettrotecnica presso la scuola d‟ingegneria dell‟Università Federico II di Napoli. Avevo presentato una tesi che a quei tempi era alquanto singolare per il mio ramo, perché riguardava un nuovo componente elettronico che si basava sul modo di condurre l‟elettricità in certi materiali solidi, come il silicio e il germanio, scoperto nel 1948 dall‟americano William Shokley. Si chiamava “semiconduzione” e i componenti elettronici che ne derivarono furono allora chiamati “transistor” (per questa fondamentale scoperta Shokley ed i colleghi Bardeen e Brattain ricevettero nel 1956 il Premio Nobel per la fisica).
I transistor si comportavano come i tubi elettronici esistenti a quei tempi, che consentivano di regolare il passaggio della corrente tra due elettrodi per mezzo di un terzo con funzione di controllo, quindi potevano funzionare da amplificatori ma anche da interruttori di corrente e quindi essere usati per scopi digitali, vale a dire per avere a che fare con i numeri.
Io ne avevo sentito parlare dal mio Professore di Radiotecnica, che a quei tempi era l‟unica materia che aveva un po‟ il sapore di elettronica, e avevo letto un articolo su una rivista americana, che si chiamava appunto “Electronics”, che divenne la pietra miliare nella storia di questa tecnologia che avrebbe poi influito incredibilmente sul modo di vivere dell‟umanità.
Dissi al Professore che mi sarebbe piaciuto fare la mia tesi proprio su questo argomento e lui fu d‟accordo. Fu così che mi laureai in una disciplina, l‟elettronica digitale, che ancora non esisteva nei piani di studio delle università italiane, e lo feci passando attraverso un‟altra disciplina, la radiotecnica, che con quella non c‟entrava quasi nulla.
Il mio Relatore aveva anche rimediato dagli Stati Uniti un transistor, un piccolo oggetto simile a una supposta con tre fili che uscivano dal di dietro, e me lo diede dicendo: “Vedi se puoi farci qualcosa”. Io ci feci un generatore a onde quadre perché quel componente aveva delle caratteristiche tali da poterlo realizzare con grande semplicità, e la cosa impressionò la Commissione d‟esame che mi laureò con 110 e lode. In verità non mi regalarono nulla perché la mia media di laurea era di 29,7 perciò come premio per la mia tesi mi sarei aspettata la pubblicazione, anche perché desideravo avviarmi alla carriera universitaria. Ancora oggi penso che la Commissione avesse capito poco di quello che avevo presentato e che con la sua decisione salomonica avesse scelto di non compromettersi troppo.
Una settimana dopo la laurea mi misi subito a cercare un lavoro, ma non immaginavo che oltre a influire sul futuro dell‟umanità l‟elettronica avrebbe deciso anche il mio destino.
Trovare lavoro nei primi anni ‟50 era come cercare un ago in un pagliaio. Il Paese era ancora mezzo distrutto dalla guerra, nel Sud le industrie ancora in piedi erano poche e nel ramo di mio interesse erano quasi inesistenti. Per non rimanere con le mani in mano, intanto accettai subito la proposta del Preside di Elettrotecnica di fare l‟Assistente straordinario presso la Cattedra di misure elettriche a 1.200 Lire la settimana che mi bastavano appena per i pasti alla mensa dell‟Università e per i mezzi pubblici per raggiungerla.
Oggi i giovani si lamentano che non si trova lavoro, ma se si fossero trovati nelle nostre condizioni di allora, con le loro idee, attese e pretese di oggi, si sarebbero suicidati. Nonostante la mia buona laurea la Marelli di Milano mi offriva un posto da operaio a 45.000 Lire al mese, e fui anche sul punto di accettare quando mi arrivò una proposta dalla General Electric per un lavoro negli USA da vero ingegnere nella ricerca sui missili spaziali. I missili risvegliavano in me i recenti ricordi della seconda guerra mondiale, alla quale non avevo partecipato per la mia giovane età, ma che avevo vissuto in prima persona con tutte le sofferenze e le miserie che mi aveva fatto vedere e anche provare. Comunque sarei andato anche lì, perché avevo bisogno di affrancarmi dalla mia famiglia e metterne su una mia, quando mi capitò di leggere un annuncio molto piccolo sul quotidiano “Il Mattino” di Napoli. L‟Olivetti cercava giovani laureati in ingegneria, fisica, matematica per un suo centro di ricerca elettronica. Risposi subito e subito mi ritrovai a Milano a colloquio con l‟ing. Berla della Direzione Centrale del Personale e poi con Mario Tchou, l‟ingegnere cinese/italiano che Adriano Olivetti aveva catturato negli USA per dirigere il suo progetto inteso a realizzare un calcolatore elettronico.
Adriano era un imprenditore lungimirante. Capiva che con le sole macchine per scrivere l‟Azienda non sarebbe potuta andare lontano e lui si doveva essere fatta una sua strategia di lungo periodo che comprendeva anche il calcolo elettronico. Bisogna sapere che, avendo perso una guerra con una resa senza condizioni, ci era proibita qualsiasi iniziativa industriale che potesse sapere anche alla lontana di armamenti bellici. A quell‟epoca il calcolo elettronico era agli albori e si pensava di applicarlo solo in ambiti scientifici e commerciali, così, anche su consiglio di Enrico Fermi, Adriano decise di cimentarsi in questa nuova avventura. E io ci finii dentro a pié pari.
Dopo un colloquio di un‟ora, in cui conversammo del più e del meno e con l‟unica domanda tecnica sulla forma d‟onda ai capi di un condensatore in un circuitino schizzato su un foglio, Mario Tchou mi assunse subito come impiegato tecnico di seconda categoria a 80.000 lire al mese nella sede di Pisa degli LRE, i Laboratori di Ricerche Elettroniche della Olivetti, inizio al 1° novembre del 1956. Non potevo crederci, dopo solo tre mesi dalla laurea avevo già un lavoro. E che lavoro!
Uscii dalla sede dell‟Olivetti, che allora era in Via Clerici a Milano, volando un palmo da terra, e il 29 ottobre ero già a Pisa per studiare con calma la città ed essere il 1° novembre a Barbaricina dove avrei lavorato fino a tutto il 1959.
Avevo in tasca le 60.000 lire che mi aveva dato mio padre dicendomi: “Finora a te ho pensato io e ti ho fatto studiare, ora la vita è tua e ci devi pensare da solo, ma l’Olivetti ti pagherà il primo stipendio al 27 del mese e fino allora dovrai pur vivere, perciò per questo mese sarai ancora a mio carico. Spendili con prudenza.” Mi diede così la sua benedizione.
A Pisa mi sistemai vicino alla Stazione in un piccolo albergo di nuova costruzione che stava di fronte a un largo spiazzo, forse lasciato libero da una casa distrutta dai bombardamenti. Il tempo era freddo e umido, ma non pioveva.
Così cominciò la mia avventura con la vita. ** segue