di Gianni Di Quattro
Gli ultimi decenni sono stati percorsi di corsa ovunque; tutti a consumare il più possibile, tutti a combattere per avere, per possedere cose, tutti ad aggrapparsi al futile, al divertente, al superficiale. Tutti a viaggiare, comprare, spostare denaro. Insomma, il fenomeno storico che si definisce Edonismo Reaganiano e i suoi lunghi effetti sociali ed economici.
Era proprio quello che voleva quel Presidente, che con i suoi assistenti economici diffuse la teoria secondo la quale non bisognava produrre quello che chiedeva il mercato, ma bisognava produrre il più possibile e poi imporre al mercato di comprare tutto. La gente doveva comprare e comprare come le vacche devono fare latte; la pubblicità e i suoi sacerdoti avevano il compito di parlare alla gente.
Questa corsa lunga, affannosa, ci ha portato alla situazione attuale definita di transizione. Perché non si può più continuare sui binari del passato, sono successe nel frattempo cose che hanno scardinato l’umanità. La scomparsa di valori e di ideologie, i sentimenti sempre più considerati prodotti di consumo come tanti altri, la scomparsa di una classe media nella società e l’aumento enorme della differenza tra chi ha e chi non ha grazie al fenomeno della globalizzazione favorito anche dallo sviluppo tecnologico, la cultura non più guida sociale, considerata non produttiva, ridotta al massimo a turismo museale, la ripresa del significato del potere e della forza come vera indicazione politica, umana, sociale.
E poi una grande solitudine che è scesa su tantissime persone. Ci si rende conto, dunque, che si deve passare ad un altro modo di interpretare la vita singola e comunitaria, ad un modo diverso di vivere la società; non si sa tuttavia ancora bene dove andare e come arrivarci.
Nel contesto che ha dominato negli ultimi decenni, l’impresa è creata da qualcuno ambizioso che ne ha l’occasione, che si propone di produrre ricchezza a prescindere e che non prevede una lunga vita della iniziativa, certamente non piena di valori sociali e di significati morali e culturali. L’impresa cioè è uno strumento per fare soldi, non ha alcun riferimento con altri valori o finalità, cura il personale come qualsiasi macchina produttiva, sempre che non sia di ostacolo economico al conseguimento degli obiettivi.
Questa è, dunque, la situazione oggi, come sempre salvo rare e preziose eccezioni. Queste eccezioni, tra cui spicca in primo piano nel nostro paese la Olivetti di Adriano (un po’ lontana nel tempo ma vicina nella mente di tanti), sviluppavano e qualcuno ancora sviluppa la loro struttura, il loro business insieme ad un progetto culturale nel senso più ampio. Attenzione ai collaboratori, considerati la risorsa più importante dell’impresa, agli ambienti dove si produce, ai prodotti e al materiale che li accompagna, ai sistemi di comunicazione con il mercato, con i clienti, con il territorio sede operativa e con il sistema dei valori del paese. Forse le imprese, se vogliono, esempi di come fare impresa ne hanno; devono solo far decidere alla loro intelligenza cosa vogliono essere.
Una impostazione non solo proiettata a fare soldi forse produce meno a breve, ma garantisce utili per lungo tempo. A parte il fatto che è un modo per partecipare allo sviluppo sociale e politico della comunità e non solo economico.
Caro Gianni, non potevi esprimere meglio ciò che penso anch’io.
La speranza è che comincino a capirlo anche i giovani. Gian Carlo
I primi a doverlo capire sono gli adulti ( genitori, etc, ) cioè noi!
Il mio commento, in versione potenzialmente eseguibile.
Parole sante, si dovrebbe dire con una frase abusata.
Gianni ha messo sinteticamente giù alcune idee che fortunatamente, peraltro, già circolano in alcuni ambienti più provveduti.
I commenti fin qui comparsi mi trovano ovviamente d’accordo. Vorrei segnalare un’esperienza mia particolare.
Un bel po’ di anni fa (2004) ho avuto occasione di tradurre per una piccola casa editrice (Orme Editori) un saggio, pubblicato in originale uno-due anni prima, di un economista e docente universitario australiano, tale Clive Hamilton, dal titolo “The growth fetish”, reso in italiano con “Sviluppo a tutti i costi?”.
Si tratta di un appassionato pamphlet contro l’ossessione, non solo occidentale, della crescita senza limiti come molla insostituibile del progresso umano. Il saggio contiene un’analisi della realtà e dei fenomeni economici e sociali che caratterizzano il nostro mondo dall’ultima parte del secolo scorso, accompagnata da intuizioni e spiegazioni che mi sembrano adesso attualissime e, per la data in cui furono pubblicate, profetiche.
Naturalmente decine o centinaia di altri studiosi avranno vivisezionato questi fenomeni, ma credo che mai si approfondisca un argomento come quado si deve tradurre un libro su di esso e quindi la cosa mi è rimasta impressa.
Chi fosse interessato può ancora trovare il libro su Internet.
Purtroppo una revisione bozze (non mia) un po’ frettolosa e una impaginazione poco ariosa possono disturbare qua e là la lettura, ma poi non più di tanto.
A proposito di [cito Gianni Di Quattro]
… si deve passare ad un altro modo di interpretare la vita singola e comunitaria, ad un modo diverso di vivere la società; non si sa tuttavia ancora bene dove andare e come arrivarci.
metterei in evidenza quel tipo di COMUNICAZIONE tra domanda “analogica” [motivata da problemi esistenziali] e offerta “digitale” [realizzabile da competenze acquisite] che già nel 1984 Edgar Morin aveva associato all’idea di CULTURA.
Il commento precedente richiede una rettifica
A proposito di [cito Gianni Di Quattro]
“…. si deve passare ad un altro modo di interpretare la vita singola e comunitaria, ad un modo diverso di vivere la società; non si sa tuttavia ancora bene dove andare e come arrivarci.”
metterei in evidenza quel tipo di COMUNICAZIONE, tra DOMANDA “analogica” [motivata da problemi esistenziali] e OFFERTA “digitale” [realizzabile da competenze acquisite], che già nel 1984 Edgar Morin aveva associato all’idea di CULTURA COME SISTEMA.
Mi scuso per i non più attivi collegamenti [broken links] dei miei precedenti commenti.
Sul tema proposto dall’articolo continuo a procedere per tentativi nella speranza, sempre più fievole, di contribuire a far [ri]-scoprire, a figli e nipoti, come mettersi in grado di decidere dove andare e come arrivarci, in tempi di crescente dipendenza dalle piattaforme digitali.
Segnalo due articoli che dovrebbero stimolare l’avviamento di un dialogo intergenerazionale [e forse anche inter ex risorse umane]:
http://www.eff.org/deeplinks/2022/03/make-social-media-work-better-make-it-fail-better-0
http://www.newstatesman.com/encounter/2022/04/noam-chomsky-were-approaching-the-most-dangerous-point-in-human-history