di Gianni Di Quattro
Sulla Olivetti si è tanto scritto e discusso e si continua ancora oggi a farlo. Infatti, molto diversa dal panorama industriale dell’epoca è stata la Olivetti di Adriano e molto straordinariamente anticipatrice del futuro. Gli elementi che la hanno caratterizzata tengono aperto il caso e ancora oggi si studiano idee, comportamenti e strategie di quella impresa. Una impresa presente in tutto il mondo e famosa in tutto il mondo.
Molti sostengono che le idee di Adriano per fare impresa hanno avuto spazio in quegli anni, nella situazione sociale e politica dell’epoca, in un mondo molto definito nel bene o nel male, dove tutte le dimensioni erano ridotte, dove si avvertiva non solo nel nostro paese, la voglia di una cultura diversa dal passato, di cominciare un percorso verso il futuro per cercare di dimenticare il passato con le sue pene, i suoi orrori, le sue traversie umane. Questi sostengono che oggi la Olivetti di Adriano non avrebbe spazio, non rappresenterebbe un valore, oggi che la competizione, la globalizzazione, la tecnologia condizionano le aziende e ne impediscono i salti troppo ideali. Costoro pensano anche che la cultura oggi non sarebbe uno strumento di sviluppo, ma addirittura un handicap forte e molto condizionante.
Questa tesi è apparentemente vera, ma sostanzialmente falsa. Una tesi che non percepisce gli sforzi che il mondo imprenditoriale ed economico oggi sta cercando di fare, anche se spesso in modo scomposto, per superare lo stallo di una crisi che è non solo conseguenza di eventi traumatici come guerre, pandemia, carestie e disastri naturali. Una crisi dovuta certamente ad alcuni fenomeni che sono stati provocatori come la globalizzazione nella versione sino a questo momento sviluppata e cioè pilotata dall’economia e ancor di più dalla finanza e dalla tecnologia che ha sostenuto questa globalizzazione dei forti a danno dei deboli e ha condizionato iniziative imprenditoriali nel mondo non sostenuti dalle dimensioni o dalla ricchezza. Una crisi che ha provocato un nuovo medioevo, anche se diverso nelle apparenze come è naturale quando i fenomeni si ripetono a distanza di tempi lunghi.
Tuttavia, i tempi che stanno scorrendo stanno consentendo di prendere coscienza della crisi e di capire come e perchè il mondo è precipitato dentro di essa. Per questo oggi si ricomincia a parlare di valori per fare impresa, per fare economia, per inventare, per creare, per costruire un modo di vita diverso, meno proiettato a favorire i ricchi e assistere tutti gli altri, abbandonando gli ultimi. Questo concetto si riferisce ad un modo di concepire l’umanità, ma anche di concepire l’economia, l’impresa.
Ecco, dunque, che si ricomincia a pensare ad alcuni valori come non solo ad una forma di bizzarria imprenditoriale, ma come una necessità per vivere. Un personale, a tutti i livelli, con un certo livello di scolarità, più preparato, più attento culturalmente è indispensabile per avviare nuovi sistemi di produzione, nuovi orari e modi di partecipazione, per disporre di una elasticità produttiva e aziendale in generale, per creare un clima favorevole allo sviluppo della qualità del lavoro ed allo studio dei nuovi progetti. Progetti che richiedono tempi strettissimi rispetto al passato, perché è più corta la vita dei prodotti e perché il marketing, inteso come sistema distributivo, lo richiede. Allora è indispensabile percorrere ogni via per perseguire questi obiettivi, biblioteche, proposte culturali, servizi alle persone dagli asili nido a quelli sanitari, iniziative per promuovere il legame con il territorio e allo stesso tempo il valore della internazionalità. Ma anche cercare talenti, perché costoro se pur talvolta di difficile gestione, rappresentano un valore necessario per l’intelligenza dell’azienda e inoltre servono a creare ambiente. Naturalmente nella ricerca dei talenti è fondamentale la integrazione delle culture non solo per non avere una impresa monocolore e senza respiro, ma per stimolare attenzione e conoscenza, cosa possibile integrando appunto tecnica, gestione e filosofia, cioè etica e valori.
Ma anche e soprattutto l’impresa non può solamente rappresentare un affare per chi la promuove e ne incassa legittimamente gli utili prodotti. Deve rappresentare una unità sociale integrata con tutta la comunità locale e nazionale, un sistema di equilibrio sociale, di sviluppo e progresso per tutta la comunità. Di conseguenza cambia la figura dell’imprenditore, che diventa sempre più un operatore sociale e che fa il mestiere per passione, perché ne ha i mezzi e le idee, perché sente questo ruolo sociale oltre che economico come missione e non solo come una opportunità personale.
E, infine, la bellezza. In tutte le forme, ovunque nell’azienda, nei prodotti, nelle documentazioni, nelle manifestazioni, negli uffici, nelle iniziative. La bellezza come strumento di elevazione dell’uomo, come mezzo per migliorare la vita personale e collettiva, come mezzo per favorire la solidarietà, il rispetto, il piacere di essere uomo in mezzo ad altri uomini.
Dunque, queste cose pensava Adriano, queste cose erano in Olivetti, queste cose la distinguevano. Ed oggi sono queste cose che possono ridare vita alla impresa, un nuovo tipo di impresa, ridare una prospettiva alla economia, valore alla comunità, favorire la internazionalità, dare slancio a tutta la vita dell’uomo equilibrando lavoro e sentimenti alla luce della cultura, della bellezza e del rispetto. Per questo penso che oggi la Olivetti ci sarebbe ancora, anzi potrebbe rappresentare il modello di una nuova era.
Caro Gianni, condivido la tua speranza ma leggi cosa scrivo nel mio ultimo romanzo (Finalmente domani!) e dimmi se credi che tutto ciò sia possibile oggi
“La Olivetti era un’azienda come non ne esistono più: aveva un’anima.
Adriano Olivetti aveva plasmato l’azienda con l’energia carismatica della sua umanità e della sua cultura: aveva vissuto la sua “ditta” come una grande “comunità” ed era riuscito ad infondere nei suoi lavoratori il senso di un’identità aziendale fatta d’orgoglio, entusiasmo, impegno e dedizione.
Figura scomoda, era stato insieme un sognatore e un grande e concreto imprenditore. Convinto che il successo di un’azienda stesse nella partecipazione anche emotiva dei lavoratori, con la loro impegnata collaborazione, negli anni ’50 aveva realizzato un duplice raddoppio annuale delle vendite, incrementando cinque volte la produttività aziendale.
L’entusiasmo e la partecipazione dei lavoratori non erano ottenuti con vuota retorica. L’efficienza dei lavoratori era ottenuta mettendoli nella condizione di rendere al meglio e di sentirsi parte di un progetto comune.
I dipendenti della Olivetti avevano benefici effettivi eccezionali per l’epoca: i salari erano superiori del venti per cento della base contrattuale; godevano di un salario indiretto costituito dai servizi sociali; le donne avevano nove mesi di maternità retribuita (un’enormità per quei tempi); il sabato era lasciato libero prima ancora che ciò fosse ottenuto dalla contrattazione sindacale. L’orario di lavoro, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro, era stato ridotto da 48 a 45 ore settimanali.
La Olivetti era un fenomeno mondiale per l’eccezionalità dei suoi progetti, per la linea dei suoi prodotti, per l’alta qualificazione dei suoi uomini e per i risultati che tutti insieme realizzavano giorno dopo giorno.
Era un’industria che aveva saputo guardare al valore degli uomini, delle tecnologie e dell’internazionalizzazione molto tempo prima che il termine globalizzazione dell’economia e delle genti diventasse un luogo comune.
Era un’azienda che aveva un inconfondibile stile, fatto di vocazione all’eccellenza tecnologica, all’innovazione, al design, ai rapporti internazionali.
Era fatto anche di un forte impegno a favore dell’arte e della cultura, e di un’attenta sensibilità verso i temi sociali e verso i modelli avanzati di relazioni industriali.
Si distingueva, poi, per la costante determinazione a creare un ambiente di lavoro stimolante e creativo che incoraggiasse l’entusiasmo e il gusto della sfida.
Pur essendo stata un’esperienza concretissima, per chi l’aveva vissuta era stata anche un’esperienza ideale.
Si era creata intorno all’azienda un “orgoglio Olivetti” di uomini che, facendo parte di questa “comunità”, si consideravano diversi e promotori di un modello industriale senza precedenti: non era retorico l’orgoglio dell’etichetta di “olivettiani” della quale i lavoratori dell’Azienda si sarebbero fregiati, per sempre, riconoscendosi fra loro.
Forse, un’utopia.
Ma, per molti, sarebbe stata una via per la speranza sociale, un dovere da non tradire per tutta la vita.”
Tutto ciò è possibile oggi?