La Divisione Telescriventi
di Fausto Capasso
Nota dell’autore: Questi sono i miei ricordi del primo periodo in Olivetti, alla Divisione Telescriventi, dal 1956 al 1965. Ricordi personali, scritti soprattutto per mio promemoria. Ci sono certamente alcune imprecisioni per la difficoltà di ricordare bene. Sarò grato a chi mi farà osservare errori ed omissioni ed accetterò di buon grado anche critiche sulla mia interpretazione dei fatti.
L’invenzione della telescrivente
Ero ancora un bambino di forse sei o sette anni quando sentii parlare per la prima volta di telescriventi, da mio padre. Nei primi anni venti, prima di diventare notaio, lui era stato funzionario del Ministero delle Poste ed aveva avuto modo di apprezzare quelle macchine che, meraviglia delle meraviglie, erano capaci di scrivere a distanza. In quel tempo erano poco diffusi gli stessi telefoni, e i pochi che avevano una radio la dovevano ascoltare in cuffia.
Su Wikipedia ho trovato che la telescrivente ed il suo impiego sulle linee telegrafiche sono stati realizzati e perfezionati fra la fine del secolo diciannovesimo e l’ inizio del ventesimo da vari inventori americani, e poi dal francese Emile Baudot e dall’ inglese Frederick G. Creed. La produzione commerciale delle telescriventi ed il loro impiego su larga scala cominciarono nel 1922. Rispetto al vecchio telegrafo con l’alfabeto Morse la telescrivente aveva costituito davvero un grande passo avanti.
Per me invece il dovermi occupare di telescriventi fu un passo indietro dal punto di vista tecnologico. Dopo aver lavorato per anni con le frequenze di oltre 300 MHz dell’atterraggio strumentale ero passato ai pochi Hertz (anzi Baud) della trasmissione telegrafica.
Passo indietro che avevo accettato volentieri perché compensato dalla soddisfazione di poter lavorare nel tanto positivo ambiente della Olivetti, dopo i contrasti e le meschinità dell’ambiente precedente.
La Olivetti Telescriventi
Fin dai primi giorni mi resi conto che noi del settore telescriventi eravamo considerati “parenti poveri” rispetto a quelli che lavoravano per le macchine per scrivere e per le macchine da calcolo.Il nostro fatturato era di gran lunga inferiore e la T2, la nostra telescrivente, non era all’avanguardia tecnologica rispetto alla concorrenza come erano invece tutti gli altri prodotti della ditta.
Se ben ricordo il mercato delle telescriventi nel mondo (a parte Unione Sovietica e Paesi satelliti, dei quali non ero al corrente) era suddiviso fra quattro ditte, con una distribuzione determinata dal fatto che i clienti, e cioè le amministrazioni postali dei vari Paesi, tendevano a concentrare gli acquisti su di un solo modello o al massimo due, in modo da rendere meno problematici l’addestramento del personale e l’assistenza tecnica.
L’azienda più importante era la americana Teletype, che aveva il monopolio di fatto negli USA e che era presente anche in molti altri mercati. Se ben ricordo la macchina era ingombrante e costosa ma molto robusta ed affidabile. Ne avevo visto alcuni esemplari anche in Italia, quando lavoravo negli aeroporti. L’inglese Creed era diffusa quasi esclusivamente in Gran Bretagna e nel Commonwealth.
Negli altri Paesi c’era concorrenza fra la Olivetti e la tedesca Siemens. Poco prima che io arrivassi in Olivetti le nostre telescriventi erano vendute solo in Italia ed in pochi altri Paesi, in particolare del terzo mondo. Poi la qualità era notevolmente migliorata, credo soprattutto per merito dell’anziano ingegnere Fulgido Pomella, nuovo Direttore della Produzione. Non c’era più inferiorità tecnica rispetto al prodotto Siemens e fummo in grado di soddisfare le richieste delle Poste danesi, che erano molto esigenti.
Il primo figlio
L’ing. Pomella era un gentiluomo. Nel 1957 fu per Elena e per me una gradita sorpresa che egli, pur non essendo il mio capo diretto, in occasione della nascita di Alberto, il nostro primo figlio, avesse fatto arrivare alla neo-mamma un magnifico mazzo di fiori.
In quel tempo in occasione dei matrimoni si usava dire “Auguri e figli maschi”. Ma per Elena e per me non c’era differenza, avremmo accettato con grande amore anche una figlia femmina, come è avvenuto in seguito. Fino ad allora per chi lavorava nelle Telescriventi c’erano state solo figlie femmine, e lo stesso ing. Beccio, progettista della T2, di figlie femmine ne aveva avute cinque. Elena ed io col nostro figlio maschio avevamo interrotto una tradizione che durava da tanti anni!
Il centralino per l’Agenzia Italia
A me piacciono le storie a lieto fine, ma per tanti altri il racconto delle cose normali non è molto interessante. Per loro sarebbe noiosa una storia che finisse con un felice matrimonio tra Amleto ed Ofelia. Se avranno la pazienza di continuare a leggere questo racconto fino in fondo ci sarà per loro la noia di alcune storie a lieto fine. Ma intanto ne racconto una con un finale tutt’altro che lieto.
Tutto bello, tutto perfetto in Olivetti a quei tempi ? Io lo credevo con convinzione ed: avevo fiducia cieca in tutto quello che veniva fatto nella nostra ditta. Quella convinzione era più che giustificata, ma c’è sempre qualche eccezione, come una volta dovetti constatare con grande amarezza.
Nell’ottobre del 1956, pochi mesi dopo il mio arrivo in Olivetti, il mio capo di allora, l’ing. Domenico Garelli, pensando di farmi cosa gradita in quanto romano e con la famiglia di origine a Roma, mi propose di curare l’installazione di un nuovo centralino telegrafico a 24 linee nella sede dell’Agenzia giornalistica Italia in Piazza Capranica, appunto a Roma.
Domenico Garelli, del quale ho un carissimo ricordo, aveva scritto un romanzo di fantascienza che mi era piaciuto molto. Il titolo era “Il RAGNO e il RESTO”, dove “RAGNO” e “RESTO” erano gli acronimi di due avveniristici calcolatori elettronici capaci di rivoluzionare la vita di tutti i giorni.
Accettai ben volentieri l’incarico anche se non ero stato minimamente coinvolto nella progettazione e realizzazione di quel centralino. Lo schema era molto semplice ed avevo provato, senza alcun problema, il funzionamento delle apparecchiature che erano state utilizzate per la messa a punto del sistema in laboratorio.
Per lo smantellamento del vecchio centralino e la messa in servizio del nuovo, con il personale della Olivetti di Roma, era previsto un tempo di due o tre ore, da svolgersi di domenica, presumibilmente in assenza di notizie giornalistiche importanti da trasmettere. Negli anni precedenti tutte le domeniche erano state tranquille, tranne una sola volta con qualche piccolo problema per aver dovuto trasmettere, appunto di domenica, delle notizie sulla recrudescenza del singhiozzo del Papa Pio XII.
E invece quella domenica, appena finito di smontare il vecchio centralino: “Sbarco a Suez!” e “Rivolta in Ungheria!” Accelerammo il montaggio del nuovo centralino ma l’alimentatore, che avrebbe dovuto assicurare il servizio per tutte e 24 le linee, si rivelò insufficiente, soprattutto per difetto di ingegnerizzazione. Il centralino non fu in grado di trasmettere le notizie contemporaneamente a più di una decina di destinazioni.
Chi ha avuto la possibilità di vedere in attività i giornalisti sa bene quanto frenetico è il loro lavoro in particolare in momenti critici: quel giorno erano furibondi e ne avevano ben motivo. Le provai tutte per far funzionare il nuovo centralino, ma senza risultato. Non ebbi altra possibilità che quella di far rimontare frettolosamente il vecchio.
È stata la giornata più angosciosa di tutta la mia lunghissima vita di lavoro.
I sistemi con relé elettromeccanici
All’inizio del mio lavoro in Olivetti più che della telescrivente vera e propria, la T2, mi dovetti occupare di centralini telegrafici e di altre apparecchiature nelle quali le telescriventi trovavano impiego. Allora per poter realizzare certe funzioni complesse si dovevano utilizzare dei sistemi di relé elettromeccanici, perché non erano ancora entrati nell’uso comune i. dispositivi elettronici che poi hanno permesso di ottenere prestazioni straordinarie un tempo inimmaginabili. Avevo già avuto modo di conoscere ed utilizzare i sistemi a relé quando lavoravo negli aeroporti, poi nei primi tempi in Olivetti avevo perfezionato la mia preparazione in quel campo raggiungendo una discreta padronanza nella loro progettazione.
Era relativamente facile risolvere i vari problemi in un modo qualsiasi, al primo tentativo, ma io ero convinto della opportunità di ottimizzare il prodotto. Mi preoccupavo di ridurre per quanto possibile il numero dei relé e dei componenti associati, in modo da ridurre il costo e l’ingombro del prodotto. Ma ne valeva la pena, trattandosi per lo più di apparecchiature da realizzare in un solo esemplare? Forse no, anzi forse un cliente che aveva concordato il prezzo pensando ad un prodotto complesso avrebbe potuto poi contestarlo, trovandosi davanti un’apparecchiatura tanto più piccola e semplice del previsto. In realtà non ci sono mai stati problemi di questo genere: i clienti erano soddisfatti e pagavano regolarmente il prezzo pattuito. Ma di quel pericolo allora io non mi rendevo conto, ed affrontavo volentieri, anzi con compiacimento, dei compiti un po’ più
impegnativi del necessario. Era come risolvere uno dei tanti giochi della Settimana Enigmistica, di quelli difficili ma non troppo. Per me era anche un divertimento.
I radiodisturbi
Con i miglioramenti in produzione la nostra telescrivente era diventata competitiva, ma c’era ancora una grossa difficoltà: il suo funzionamento provocava forti disturbi elettromagnetici che compromettevano la ricezione radio e televisiva da parte di apparecchi situati nelle vicinanze. Disturbi a largo spettro che arrivavano a quelle frequenze di centinaia di Megahertz che avevo dovuto abbandonare un anno prima e per le quali mi sentivo preparato. Ma non si trattava di ottenere dei risultati lavorando con quelle frequenze, si trattava solo di eliminarle!
Per poter partecipare ad una importante gara per le Poste austriache era necessario ridurre i radio disturbi al disotto di determinati limiti, molto bassi, ed io fui incaricato di risolvere il problema. Negli anni successivi furono assunti dei giovani molto bravi che si dimostrarono capaci di trattare bene quel genere di problemi, ma fino ad allora in Olivetti credo proprio che non ci fosse ancora quel tipo di esperienza. Il compito era impegnativo anche perché nella T2 le sorgenti di disturbo erano due (il motore a collettore ed il suo regolatore di velocità) e perché i disturbi erano presenti per tutto il periodo di funzionamento e non soltanto al momento della accensione e dello spegnimento.
La cabina schermata
Le prove per misurare i radiodisturbi dovevano essere fatte in un ambiente privo di interferenze, cioè all’interno di una efficiente cabina schermata. Quella a mia disposizione era una cabina di legno con pavimento in lamiera di rame e pareti e soffitto di rete a maglia fitta di fili anch’essi di rame. C’era chi la chiamava “la gabbia dei polli”. In realtà era un ottima gabbia di Faraday, ma per far funzionare le apparecchiature da sottoporre a misure bisognava introdurre in essa la corrente elettrica. Chi si era occupato del problema prima di me non aveva la necessaria preparazione specifica ed attraverso i conduttori elettrici, non efficacemente filtrati, i disturbi presenti nell’ambiente esterno entravano facilmente nella cabina e la rendevano inutilizzabile. Mi misi all’opera e riuscii a portare la cabina schermata ad un accettabile livello di efficienza, ma era stato necessario un tempo piuttosto lungo per poter approvvigionare i necessari filtri speciali, e intanto era stato già deciso di acquistare una nuova cabina schermata, prodotta proprio dalla Siemens, la nostra concorrente.
Quella cabina la aspettavamo con ansia, naturalmente io che ero il diretto interessato, ma soprattutto il mio capo di allora, ing. Giuseppe Ricciardi. Subito dopo l’arrivo del camion che la trasportava, in un tardo pomeriggio, venne un forte temporale. Gli operai avevano cominciato a trasportare i pezzi della cabina nel luogo di destinazione ma non mi parve possibile continuare quel lavoro in quelle condizioni. Decisi di sospenderlo e di rimandarlo al mattino successivo. La cosa dispiacque a Ricciardi che avrebbe voluto evitare quel ritardo, sia pure di poche ore.
Ma anche prima dell’arrivo della nuova cabina io avevo potuto effettuare le prove per la riduzione dei disturbi perché le Poste Austriache ci avevano messo a disposizione la loro cabina schermata ed i loro strumenti di misura. Andai a Vienna per una decina di giorni, portando con me dei filtri speciali che avevo fatto realizzare da una ditta di Monza.
Vienna
Nei primi anni delle elementari io avevo avuto una maestra che, poverina, era rimasta vedova molto giovane. Suo marito era morto combattendo contro l’Austria, durante la grande guerra. Lei ci aveva insegnato ad odiare gli austriaci, ed io, bambino, mi ero fatto l’idea che essi fossero tutti “brutti, sporchi e cattivi”. La mia convinzione cominciò a vacillare quando, un po’ più grandicello, mi resi conto che erano austriaci sia Mozart che Schubert (soprattutto lui, l’amatissimo Schubert). Poi, a Vienna trovai delle persone non soltanto civili ma anche molto amabili.
Che bella città, Vienna! E anche i suoi dintorni!
Una sera il direttore della Austro-Olivetti mi portò a cena in una trattoria di Grinzing, sobborgo su di una collina vicina a Vienna. C’era una atmosfera di allegria e di cordialità come credo non ci fosse in nessun altro posto del mondo, a parte le vecchie trattorie di Trastevere, a Roma. Quelle di allora, non quelle di adesso che non sono più tanto spontanee e sincere. Dopo un buon pasto ed una bella bevuta del buon vinello locale mi trovai a cantare anch’io, ondeggiando, sottobraccio ad un signore austriaco che aveva dei grandi baffi all’insù.
L’eliminazione dei radiodisturbi e la gara
Con mio grande disappunto i primi tentativi di ridurre i radiodisturbi prodotti dalla telescrivente si erano rivelati infruttuosi. Solo dopo alcuni giorni mi resi conto che l’insuccesso era dovuto al fatto che affrontavo le due sorgenti di disturbo una alla volta e non tutte e due insieme. Gli impulsi di disturbo prodotti da ciascuna delle due sorgenti, più o meno della stessa ampiezza, si affiancavano senza sommarsi e quando filtravo una sola delle due essi diventavano meno fitti ma con valore massimo invariato. Filtrando contemporaneamente le due sorgenti il disturbo complessivo si riduceva fortemente, al disotto dei limiti desiderati, e il problema era risolto. Facile, vero ? Ma bisognava arrivarci!
Fummo in grado di partecipare alla gara delle Poste austriache, per molte centinaia di macchine, e la vincemmo.
La telescrivente campale per l’Esercito Francese
La telescrivente “campale” per impiego militare era una variante della T 2 in grado di funzionare correttamente anche in condizioni ambientali molto sfavorevoli.
L’Esercito Francese pretendeva che i radiodisturbi di quella macchina fossero ridotti praticamente a zero, perché per una questione di segretezza l’eventuale nemico non si sarebbe dovuto accorgere della presenza della telescrivente neanche con un sensibilissimo apparecchio radioricevente posto a breve distanza. Era un problema molto impegnativo ma riuscii a risolverlo. Quando portai a Parigi il prototipo filtrato ricevetti molti elogi dagli ufficiali francesi. Le nostre telescriventi campali così filtrate furono poi da loro comprate in quantità.
Il rudimentale sistema di scrittura
La SNCF (Societé Nationale des Chemins de Fer, le Ferrovie Francesi) ci aveva chiesto di realizzare un sistema che permettesse di scrivere in modo semiautomatico i suoi ordini di acquisto e gli altri documenti relativi alla gestione degli oggetti acquistati.
Esisteva da tempo in commercio un prodotto che svolgeva molto bene quel compito. Era la Flexowriter Programatic dell’americana Friden, che utilizzava la banda perforata ad otto fori, con possibilità molto maggiori rispetto a quella a cinque fori usata dalle telescriventi. Fra l’altro la Flexowriter scriveva con maiuscole e minuscole, mentre con le telescriventi c’erano solo le maiuscole: Ma la Flexowriter aveva un costo elevato e quindi c’era spazio commerciale per una nostra soluzione, meno completa ma molto più economica.
Era già disponibile una variante della telescrivente T2 nella quale un insieme di microinterruttori montati sulle barre di selezione permetteva di trasmettere all’esterno un segnale elettrico in corrispondenza di ciascun carattere selezionato. Le parti ripetitive del testo registrate sulla banda perforata venivano stampate automaticamente; poi quando il sistema di controllo riconosceva la sequenza SSSS, (quattro S consecutive, certamente mai presenti in un normale testo) il lettore di banda si arrestava. Si potevano allora inserire, digitandoli sulla tastiera, i dati variabili e cioè la descrizione dei particolari oggetti da acquistare, le quantità, le date, i costi, eccetera. Poi si rimetteva in azione il lettore della banda perforata e ricominciava la scrittura automatica delle parti ripetitive.
Anche questo nostro prodotto fu apprezzato dal cliente. Era rudimentale e con capacità limitate, ma credo che lo si possa considerare il primo sistema di scrittura realizzato in Italia.
I vari tipi di banda perforata
In quel tempo i dati dovevano essere registrati su banda di carta perforata perché non erano ancora disponibili altri tipi di memoria, di costo ed ingombro contenuto, con le necessarie caratteristiche di grande capacità. Da tanti anni in tutto il mondo venivano usate bande perforate di due tipi : quella a cinque fori rotondi, usata dalle telescriventi e quella ad otto fori rotondi, con possibilità molto maggiori. Avevano entrambe un piccolo foro per il trascinamento meccanico.
Per un nuovo modello di macchina contabile, della serie Audit, del quale avevo sentito parlare in termini entusiastici da parte di un importante cliente, l’Olivetti decise di utilizzare un nuovo tipo di banda perforata a sei fori quadrati, credo perché la si riteneva più adatta per la lettura fotoelettrica ad alta velocità. La nuova Audit e la successiva Mercator riscossero un grande successo (credo molte decine di migliaia di macchine) soprattutto in Italia e negli altri Paesi dell’Europa continentale, ma non in USA ed in altri importanti Paesi del mondo, nei quali i potenziali clienti non erano disposti ad impiegare una banda perforata diversa da quelle già da tanto tempo in uso con piena soddisfazione. Non era questione di migliore o peggiore, ma di compatibile o non compatibile con l’esistente.
Ebbi poi la possibilità di esaminare le statistiche di vendita: di solito gli USA erano di gran lunga il nostro principale mercato ed invece le spedizioni delle nuove Audit verso quel grande Paese si erano limitate ai dieci esemplari utilizzati per le presentazioni, nell’ anno di lancio, poi più nulla.
La trasmissione dati con correzione automatica degli errori
Nei primi anni ’60 fu deciso di realizzare due sistemi di trasmissione dati con correzione degli errori che si possono verificare a causa di eventuali disturbi sulla linea di trasmissione. Al termine della lettura di ogni blocco di dati si inserivano automaticamente dei codici di controllo ed in caso di rilevamento di errore in ricezione il blocco veniva rifiutato e se ne chiedeva la ripetizione. La progettazione di quello su linea telefonica fu affidata al collega e amico Franco Serracchioli, mentre a me fu affidato il compito di preparare un analogo sistema su linea telegrafica.
Io non ero convinto della opportunità di realizzare un sistema tanto complesso e costoso per l’ impiego sulle lentissime linee telegrafiche (se ben ricordo la velocità di trasmissione era 24 volte minore di quella su linee telefoniche). Mi era stato detto che per ottenere un prodotto vendibile sul mercato se ne sarebbe dovuto contenere il costo al disotto di 400.000 lire, compresi i due terminali. Come terminale trasmittente dovevo utilizzare un lettore della nuova banda a sei fori quadrati, che costava 200.000 lire, e come terminale ricevente un perforatore della stessa banda, il cui costo era anch’esso di 200.000 lire. Quindi costo di 400.000 lire per i soli terminali e margine zero per la realizzazione della apparecchiatura vera e propria.
Era particolarmente costoso il sistema per leggere lentamente, carattere per carattere, la banda perforata a sei buchi quadri che non aveva il foro di trascinamento ed era prevista per essere letta solo fotoelettricamente a grande velocità. Non era ancora possibile l’immagazzinamento dei caratteri di ogni blocco in un buffer di costo non troppo elevato, che avrebbe potuto permettere di risolvere il problema in modo molto più semplice.
In un primo tempo avevo dedicato più energie alla collaborazione con l’amico Serracchioli per risolvere dei problemi comuni piuttosto che alla soluzione dei problemi specifici del prodotto che mi era stato affidato. Avevo anche insistito con i colleghi della Divisione Elettronica (se ben ricordo erano già a Borgolombardo) perché nei moduli da loro progettati e che anche noi dovevamo usare, si passasse subito all’impiego dei diodi al silicio al posto di quelli al germanio. Allora i diodi al silicio erano molto costosi, ma il loro costo stava progressivamente diminuendo, ed era chiaro che in breve tempo sarebbe diventato inferiore a quello dei diodi al germanio. Ma soprattutto i diodi al germanio erano molto meno affidabili di quelli al silicio, tanto che c’era chi, scherzando, diceva che per farli guastare bastava guardarli molto intensamente! Niente da fare, quelli al germanio venivano ancora usati perché costavano di meno. Approfondendo il problema fui in grado di dimostrare che, grazie al fatto che con i diodi al silicio si potevano usare delle resistenze meno costose, già allora l’intero modulo al silicio costava di meno dell’intero modulo al germanio. Il passaggio al silicio era inevitabile e sarebbe comunque avvenuto entro breve tempo, ma io fui contento di averlo fatto avvenire con qualche mese di anticipo.
L’ing. Adriano Sarti, che allora era il mio capo, mi chiese il perché del ritardo nella preparazione del mio sistema. Glie ne spiegai i motivi ma non riuscii a convincerlo, tanto che mi disse che forse non ero in grado di risolvere il problema. Gli risposi :“Se la metti così, entro un mese avrai il sistema completo”. Il prototipo allora realizzato ha poi lavorato per molti anni, credo con soddisfazione, per la trasmissione dati fra Ivrea e lo Stabilimento di Massa della Olivetti Synthesis, ma come previsto non era competitivo e non fu possibile venderne neanche uno a clienti esterni.
Ci fu anche una prova di trasmissione telegrafica con correzione automatica degli errori fra due terminali entrambi nel mio laboratorio ma collegati fra di loro attraverso un giro del mondo. Questa prova, perfettamente riuscita, era stata voluta dal gran capo della Italcable di allora, di cui non ricordo il nome, che credo la considerasse come un “record” di prestigio, perché era la prima trasmissione al mondo di quel tipo. Venne ad Ivrea e trattò con me per definire i termini del problema. Può anche darsi che la decisione della Olivetti di realizzare un così poco competitivo sistema di trasmissione sia stata determinata proprio dal desiderio di accontentare una richiesta della Italcable.
Adriano Sarti
Quando mi comunicò la mia promozione a dirigente, nel 1961, Sarti mi disse : “A fare le cose facili sono buoni tutti, è per le cose difficili che ci vogliono i dirigenti!” E poi aggiunse: “ricordati sempre che quando si hanno delle responsabilità gli errori diventano colpe.“ Con lui ho poi lavorato anche quando è diventato Direttore dell’Ufficio Brevetti e successivamente quando mi invitò a far parte della Direzione Acquisti da lui diretta. Dopo aver lasciato entrambi l’Olivetti abbiamo collaborato a lungo, con profitto, come liberi professionisti.
È mancato alcuni mesi fa e ne ho provato sincero dolore.
Rimpianti
A distanza di tanti anni mi rimprovero di essermi limitato, allora, a svolgere soltanto le attività più o meno di routine che volta per volta mi venivano richieste.
Avrei potuto e dovuto continuare a coltivare, per mio conto, le conoscenze nel campo dell’elettronica che avevo potuto acquisire con il Corso Radar del CNR e poi nei cinque anni di attività per i ponti radio e per l’aiuto alla navigazione aerea. Per venire in Olivetti avevo rinunziato ad andare per alcuni mesi nel New Jersey per occuparmi del TACAN, Tactical Air Navigation, che era una delle prime apparecchiature elettroniche in time-sharing e lavorava ad oltre 1.000 MHz. Allora il termine Gigahertz non era ancora usato, quelle frequenze, ora usate per la telefonia mobile, apparivano quasi irraggiungibili.
Forse da parte mia c’è stata quasi una repulsione verso quel mondo che in un primo tempo mi aveva affascinato ma che poi i comportamenti di qualcuno, nella Ditta precedente, mi avevano portato a rifiutare. Ma forse da parte mia c’è stata soltanto pigrizia.
E quando la tecnologia si sviluppa tanto rapidamente “chi si ferma è perduto”.
Il cambio di attività
Eravamo nella metà degli anni ‘60 ed i giovani ingegneri appena arrivati in azienda erano tutti più preparati e più bravi di me nel trattare i nuovi dispositivi elettronici che cominciavano ad essere usati su larga scala. Forse se mi fossi impegnato seriamente avrei potuto recuperare il tempo perduto e raggiungere anch’io una sufficiente padronanza delle nuove tecnologie. Ma così non è stato.
Decisi di abbandonare l’attività di progettista e chiesi all’Ufficio Personale di trovarmi un impiego in un altro settore.
Il seguito della mia attività in Olivetti sarà oggetto di un prossimo racconto.
Questi racconti, che quasi quasi stanno diventando una tradizione per olivettiani.org, sono sempre belli, ricchi di notizie, scritti bene. Chissà che una volta venga anche a me la voglia di aggiungermi al numero degli… storici!
Ugo Panerai