di Gianni di Quattro
La laurea a Palermo in giurisprudenza a giugno e per un po’ di giorni con gli amici più cari feste presso le osterie da noi più frequentate al Capo o in via Emerico Amari. Quando l’eccitazione si è fermata con l’amico Antonio abbiamo cominciato a pensare cosa fare. Il mio sogno era fare l’avvocato ed avevo qualche proposta di qualche studio per collaborare, ma questa libera professione, almeno una volta, si poteva fare solo se ci si può aggregare in uno studio di famiglia o se si hanno i soldi per mantenersi per qualche anno senza entrate. Trovare un lavoro a Palermo negli anni 50 era praticamente impossibile a meno che non si potesse godere di raccomandazioni politiche ed entrare alla Regione o in uno dei tanti Enti che la stessa Regione creava assumendo caterve di persone anche con alti stipendi.
La decisione fu rapida purtroppo, procuriamoci gli indirizzi e scriviamo ad alcune aziende, a tutte quelle che possiamo e vediamo che succede incrociando le dita, ci siamo detti con Antonio.
Certo rinunciare al sogno definitivamente di fare l’avvocato non è stato facile, ci ho pensato per tanto tempo, passavo molte mattine nei tribunali per vedere, per respirare quell’aria che tanto mi piaceva, ma cominciavo a capire che così è la vita, bisogna adattarsi, non fare mai una tragedia quando le occasioni non sono quelle che vorremmo e soprattutto per non far pesare la cosa sulla mia famiglia che tanto aveva fatto per me. Poi sempre è stato così.
Rispose la Olivetti che mi convocò per un colloquio a Roma con Furio Colombo presso la Sede di Rappresentanza in Piazza di Spagna. Il mio amico Antonio fu convocato dalla Nestlè dove poi fece un pezzo di percorso prima di passare alla Galbani.
Dunque tutto eccitato con la storica Freccia del Sud e dopo tredici ore di viaggio andai a Roma nel giorno fissato. Il viaggio fu pesante ma io ero allegro, cominciavo ad avere fiducia, mi piaceva la convocazione, non conoscevo la Olivetti ma conoscevo Comunità e Adriano Olivetti, per i rapporti che come associazione goliardica avevamo, per le letture fatte che riguardavano questo imprenditore illuminato in un contesto industriale in sviluppo ma tradizionale, con spinte di grande conservazione.
Il colloquio con Colombo fu davvero gradevole. Era una persona attenta e formalmente perfetta, abbiamo parlato per quasi due ore durante le quali io ero riuscito a dire quasi tutto quello che pensavo della vita, della mia famiglia, dello studio, di quello che volevo e non potevo fare, della politica, dei libri che leggevo e della musica che preferivo, delle sfide che mi interessavano, di quanto mi consideravo competitivo, di quanto riuscivo ad equilibrare il piacere di stare con la gente con quello di stare da solo. Furio Colombo mi piacque molto, mi parlò della Olivetti, di alcuni pensieri di questa azienda diversa nel panorama italiano, di Adriano come di un visionario, ma attento allo stesso tempo alla realtà, al territorio, alla gente. Ci lasciammo, mi rimborsò le spese e mi disse che forse mi avrebbero chiamato per un secondo colloquio, forse definitivo.
Tornai a Palermo e rimasi in attesa, non finivo mai di raccontare a tutti, famiglia, amici, conoscenti, di Roma, del colloquio, dell’ambiente, delle speranze. Intanto il tempo passava, aspettavo notizie che non arrivavano, facevo la posta al postino, cominciavo ad abbattermi, non sapevo cosa fare. E finalmente arrivò, arrivò un telegramma con il quale mi si convocava a Milano in Via Clerici per un colloquio con Ottiero Ottieri, del quale avevo appena finito di leggere Donnarumma all’assalto.
Partii per Milano sempre con la famosa Freccia del Sud (il Treno del Sole andava a Torino, di cui la famosa poesia di Buttitta). Il viaggio durava questa volta ventitre ore, io ero meno disteso del precedente, direi più nervoso, parlavo poco con gli altri, mangiavo di malavoglia i panini che mi aveva preparato la mia mamma, guardavo l’Italia scorrere e giocavo a cercare di ricordare per ogni territorio che passavamo cosa avevo letto e cosa sapevo.
Alla fine l’arrivo a Milano, stazione monumentale, grande piazza all’uscita, un’aria strana che subito io catalogai come un misto di gomma bruciata e di carne bollita. Volevo una pensione per rendermi presentabile per il pomeriggio, la trovai e dopo un paio d’ore di riposo, una doccia e rivestito andai in Via Clerici.
Con gli occhi ancora pieni di Piazza del Duomo, della Scala, dell’atmosfera grigia della città, arrivai in Via Clerici dove un paio di signori alti, in divisa blu e guardandomi con sufficienza mi hanno interrogato per sapere come mai ero finito lì. Io rosso in viso, imbarazzato, tirai fuori il telegramma dalla borsa per dimostrare che avevo un appuntamento e che avevo fatto tanta strada per esserci. Mi hanno accompagnato all’ascensore dicendomi di andare al secondo piano dove sarei stato ricevuto, infatti alla uscita una gentile signorina, di quelle che si vedono nei film americani, mi ha accompagnato in un salotto e mi dice di attendere. Un salotto, con due comode poltrone, una marea di riviste e una finestra che dava sul retro del palazzo che mi era sembrato bellissimo nella sua modernità e dove campeggiava un grande albero. Dopo poco sono stato accompagnato da Ottiero Ottieri.
Sono entrato e ricevuto con un sorriso, l’ufficio era grande, quadri alle pareti, una grande scrivania piena di matite colorate, una grande finestra che dava sul cortile di ingresso. Non dimenticherò più il colloquio con Ottieri, non so e non ricordo di cosa abbiamo parlato, so che abbiamo parlato per un paio di ore, ci siamo anche alzati a passeggiare nella stanza, ad affacciarci alla finestra, forse quando parlavamo del clima, dei colori della natura, del valore dei colori nel comportamento di un uomo, del significato del cielo e della sua vastità nella crescita culturale e umana. Non lo so, so che sono passati moltissimi anni e io sono ancora legato a quel colloquio che non potevo immaginare e non solo per la sua importanza nella mia vita successiva.
Alla fine ci siamo salutati, mi ha detto che dovevo avere pazienza ed aspettare per essere visto dal Dott. Ugo Galassi, il direttore commerciale della azienda ed uno dei collaboratori più vicini ad Adriano Olivetti. Avrebbero tentato di arrangiare l’incontro la stessa sera malgrado gli impegni del dott.Galassi, per non farmi tornare a Palermo e poi magari ritornare. Naturalmente dissi che non avevo problemi anche perché avevo capito che tutto sinora era andato bene e che il mio futuro, ora sì, dipendeva da questo incontro, da questa giornata. Cercavo di non pensarci ma un certo tremolio continuava a ricordarmelo.
Sono stato ricevuto sul tardi accompagnato dal dott. Soliani, capo del personale Italia, in una stanza piena di fumo, grande con un uomo con i baffi in maniche di camicia con il toscano tra le labbra che mi fa segno di accomodarmi. Mi guarda e mi dice: se lei ha una azienda che produce botti, un ingegnere le propone di spostare il rubinetto da dove si è soliti metterlo per facilitare e risparmiare sul trasporto delle stesse e però ad un certo punto i clienti non fanno più ordini e la situazione diventa difficile lei cosa farebbe?
Non avevo la minima idea di cosa si doveva o si potesse fare, cominciai a tremare, aspettai qualche secondo e dissi tutto di un fiato come chi sta giocando alla roulette russa che lo avrei chiesto ai clienti perché non erano più interessati alle botti della azienda. Galassi rimase un attimo fermo a guardarmi, poi disse che era certamente l’unica cosa che si poteva e si doveva fare e poi guardando Soliani disse che io andavo bene, ci pensasse lui e mi salutò con una forte stretta di mano dicendo benvenuto.
Tornai felice a Palermo, non vedevo l’ora di raccontare alla mia famiglia, agli amici, a tutti che mi ero sistemato, avevo un lavoro, ero indipendente. Certo dovevo emigrare come mi avevano detto, dovevo rinunciare alla mia terra, so che questo me lo sarei portato sul cuore tutta la vita come poi è stato ed è ma non avevo alternative. Il viaggio è stato un sogno, gli abbracci con i miei cari straordinari, ce l’avevo fatta, avevo avuto fortuna anche se appena rimesso piede sul suolo palermitano cominciavo già ad avere nostalgia.
Caro Gianni,
a maggio del 1982 (stavo per finire l’anno di militare), a circa un anno dalla laurea in Ingegneria Elettronica conseguita al Politecnico di Fuorigrotta a Napoli, sostenni due colloqui con la Olivetti, prima a Marcianise (ero di Caserta) poi ad Ivrea e la descrizione che hai fatto della tua assunzione, mi ha molto emozionato per il semplice fatto che le sensazioni e circostanze narrate con la tua solita maestria, mi hanno fatto rivivere quelle mie.
Anche se dopo tanti anni dalla tua assunzione e soprattutto in un contesto non più gestito “direttamente” dalla famiglia Olivetti, è una testimonianza che ancora in quel periodo valevano i principi ed etiche olivettiane.
I colloqui fatti prima in ITALTEL (in crescita a S. Maria Capua Vetere), dove l’assunzione era molto più semplice se ti presentava un luogotenente politico di zona (del PSI), poi in IBM a Napoli con freddi test da “settimana enigmistica”, cioè senza un minimo di interesse a chi fossi come essere umano, furono infruttuosi e soprattutto per me demoralizzanti.
Indimenticabile invece la frase finale del mio ultimo colloquio in Olivetti (ad Ivrea, sede del lavoro propostomi) con Pino Greco (napoletano) e Mario Conforti (piemontese), della Direzione Marketing HQ. Mi dissero all’unisono : “ma se pensi che dopo un po’ vuoi tornartene a Caserta, hai sbagliato azienda …”.
E chi ci pensava, visto che dopo tanti sacrifici per una laurea impegnativa, soprattutto per gli sforzi economici che i miei genitori avevano sostenuto, era la prima vera offerta di lavoro ricevuta!
E così sabato 14 Agosto 1982, con viaggio in auto fatto da solo ( … non mi vergogno a dire che nelle 12 ore di viaggio ho anche pianto per quello che lasciavo, ma ero orgoglioso di quello che andavo a fare). il 16 Agosto cominciò la mia avventura in Olivetti.
Grazie per le emozioni suscitate dal tuo racconto.
Mario Acierno