Nuovi incarichi a Ivrea e altrove … 1985 / 1989

Lasciati i progetti dei sistemi mi ritrovai di nuovo accolto dal generoso Piol, stavolta nelle Strategie: una vera finestra sul mondo, da cui si visitava praticamente ogni settimana un’azienda esterna da seguire come già partecipata o da valutare come possibile investimento. Non era il mio lavoro ideale, ma nell’accettare di andar lì avevo sperato di dare un contributo a superare il problema, già citato, della schizofrenia tra l’area tecnica, da cui provenivo, e l’area commerciale. Aiutai tra l’altro subito Piol a rafforzare la professionalità del settore con il reclutamento di collaboratori di rilievo, alcuni dei quali sarebbero rimasti con lui a lungo.

Ma non andò come pensavo, anzi!: Piol, in accordo con il vertice aziendale, aveva in serbo questa volta una sorpresa ben più grossa degli investimenti di venture capital effettuati fino a quel momento. Stava trattando addirittura con l’AT&T che, appena ridimensionata negli Stati Uniti da una delle più importanti operazioni antimonopolistiche operata dall’Antitrust americana, cercava accordi per estendersi in altre direzioni, ovvero verso il mercato internazionale e dal mercato delle comunicazioni a quello dell’informatica.

Dopo l’annuncio interno da parte di De Benedetti e Piol dell’esistenza di un accordo preliminare con l’AT&T, fui coinvolto in contatti per lo scambio di informazioni sui prodotti, anche attraverso visite ai laboratori Bell negli Stati Uniti, oltre a numerose sessioni di discussione degli aspetti tecnici e di mercato della collaborazione futura fra le due aziende.

Anche se l’accordo definitivo era impostato, l’AT&T era determinata a sottoscriverlo solo in presenza di un piano che definisse le prospettive di collocazione sul mercato dei minicomputer UNIX della serie 3B, sviluppati dai Bell Labs con tecnologie aggiornate ma senza alcuna esperienza sulla possibilità di utilizzazione applicativa al di fuori degli impieghi di laboratorio e accademici.

Sottolineai a Piol, che del resto credo l’avesse capito benissimo da sé, la mia perplessità per il fatto che ci stavamo legando a un partner gigante in fatto di tecnologia ma totalmente vergine e inesperto per quel che riguardava i settori di mercato vitali per l’Olivetti. Ma era comunque necessario darsi da fare con il massimo impegno per sbloccare la situazione e mi trovai a scrivere, in una memorabile settimana di lavoro con due andate e ritorno negli Stati Uniti, grazie al Concorde, un documento che descriveva i principali settori applicativi di interesse per il mercato e gli strumenti software (quelli che già sapevo esistere o essere in sviluppo nel mercato nascente attorno allo UNIX) che avrebbero dovuto essere resi disponibili sui 3B per affrontare ciascuno dei settori stessi.

Non era un vero business plan, ma solo una dichiarazione d’intenti sull’approccio ai mercati con un catalogo di titoli software, ma piacque ai nostri interlocutori, perché descriveva tante cose che non conoscevano neppure. Il mio manoscritto, portato ad alcuni dei tanti avvocati dell’AT&T, quelli che si occupavano della contrattualistica e risiedevano a non ricordo più quale piano di una delle Torri Gemelle di Manhattan, fu battuto a tutta velocità ed inserito come allegato dell’accordo.

Per l’ennesima volta, nella mia vita in Olivetti, mi ero impegnato a contribuire con impegno a qualcosa che non mi convinceva fino in fondo! L’accordo tra le due aziende, per la parte ufficializzata, prevedeva infatti a vantaggio dell’Olivetti un conferimento di capitale ed un impegno dell’AT&T ad acquistare per il proprio mercato i PC Olivetti; ma evidentemente l’AT&T si attendeva anche come corrispettivo che l’Olivetti promuovesse sui propri mercati la famiglia di computer 3B. E questo avrebbe significato sostituire la Linea Uno appena entrata in produzione con unità acquisite all’esterno, non solo parecchio più costose, ma che avrebbero comportato inevitabilmente una nuova discontinuità nelle applicazioni e nell’avviamento sul mercato. Problemi terribilmente complessi, non certo bilanciati a breve dall’interesse che lo UNIX di AT&T portava in dote assieme ai prodotti della casa americana.

Per l’85 e parte dell’86 – mentre l’Olivetti spediva all’AT&T container pieni di PC (tanti finché si riempirono i magazzini, poi sempre meno …) e faceva orecchio da mercante circa i 3B, avendo abbastanza problemi a promuovere la Linea Uno – passai il mio tempo alle Strategie a studiare e proporre all’organizzazione Olivetti prodotti AT&T complementari con i nostri.

Ce n’erano a bizzeffe. Trascurando le reti pubbliche di comunicazione, che esorbitavano completamente dal nostro campo di interessi, c’erano fior di prodotti per le comunicazioni private: dagli apparecchi telefonici ai centralini di tutte le taglie, dalle reti locali e remote di trasmissione voce e dati ai sistemi di teleconferenza. Purtroppo l’organizzazione Olivetti, in maniera perfettamente speculare rispetto a quanto avveniva per l’AT&T rispetto a noi, non era minimamente preparata a gestire questi prodotti: praticamente non aveva idea di come utilizzarli!

Piol mi delegò anche un compito molto più gradito, quello di rappresentare l’Olivetti in uno Unix Club costituito tra le principali aziende informatiche europee (oltre a noi, che eravamo in posizione privilegiata in quanto partner dell’AT&T proprietaria dello UNIX, c’erano Bull, ICT, Nixdorf e Siemens), per definire e promuovere nuovi standard di ambienti applicativi basati su UNIX. Forse è solo di questo mio lavoro che è rimasta qualche traccia nel mondo informatico degli anni successivi, anche se il Club si è poi sciolto, la maggior parte delle aziende coinvolte è scomparsa e l’alleanza dell’Olivetti con l’AT&T si è presto sciolta.

A metà dell’86 Piol non ebbe cuore di trattenermi ulteriormente in una attività di coordinamento e accettò di lasciarmi ritornare ad un lavoro operativo. Vittorio Levi, divenuto nel frattempo Direttore Generale dell’Olivetti, mi propose di occuparmi di una nuova iniziativa che lo stesso Piol aveva concepito. Si trattava di una joint venture industriale tra Olivetti e Bull per realizzare ATM destinati ad essere distribuiti dalle due aziende, con l’obiettivo di raggiungere assieme economie di scala.

C’era l’impegno di utilizzare come controlli dei nuovi prodotti i PC commercializzati dalle due aziende (per ciascuna i propri), mentre tutti gli altri componenti sarebbero stati in comune. Mi fu consegnato il Business Plan, realizzato per i partner dalla McKinsey, fu messo a disposizione il capitale previsto di 18 miliardi di lire e fu creata in Francia la SIAB (Société Internationale d’Automatisation Bancaire) di cui assunsi la direzione generale.

L’intesa era che la SIAB avrebbe utilizzato un gruppo di progetto scorporato dall’Olivetti in una piccola consociata denominata SIAB Italia, ma avrebbe avuto sede e produzione in zona nei dintorni di Parigi utilizzando personale in gran parte scorporato dalla Bull. (L’Olivetti aveva in animo di utilizzare anche personale proveniente dalla Logabax, azienda acquisita alcuni anni prima e basata a Meaux, non lontano da Parigi, allora in corso di liquidazione, ma queste speranze, per ragioni di localizzazione che vedremo dopo, non si realizzarono mai).

Il mio primo reclutamento per la Francia, data la necessità urgente di definire la sede produttiva e prepararla, fu quello del collega olivettiano Renato Lenti come Direttore di Produzione. Dopo qualche giro fatto con lui a cercare in zona parigina un capannone da affittare per installarvi produzione e sede, fui convocato a Parigi al Ministero dell’’Industria, dove mi fu notificato che non ci sarebbe mai stato dato il permesso di stabilire l’attività produttiva attorno a Parigi e che eravamo “incoraggiati”, anche attraverso incentivi economici, a stabilirci in zone del Paese con gravi problemi occupazionali.

Le ricerche si allargarono così alle zone dei cantieri navali francesi allora in fase di chiusura: Normandia, Pas de Calais e Provenza marittima. Scartammo varie cattedrali nel deserto costruite e abbandonate da industrie finanziate dallo Stato e finalmente concordammo di installarci a Cassis, vicino a Marsiglia, dove ci venne regalato un terreno su cui potevamo farci costruire su misura uno stabilimento da lasciare in proprietà a una banca finanziatrice per utilizzarlo in lease-back, sostenendo così un costo corrente analogo all’affitto a suo tempo preventivato per la zona parigina. La Bull fu da parte sua irremovibile nel farci mantenere la sede vicino a Parigi, fornendo così tutto il relativo staff.

Iniziò per me e per Lenti una turbinosa giostra, con una media di tre trasferimenti la settimana, tra la sede di Parigi, lo stabilimento di produzione in costruzione a Cassis ed il gruppo di progetto sistemato a Montalto di Ivrea, affidato ad Antonio Mastellari, di cui facevano parte i miei ex collaboratori del GSE che avevano realizzato la generazione precedente di ATM Olivetti. Ai viaggi tra le nostre sedi così sparpagliate si aggiungevano ovviamente anche quelli per tenere i rapporti con gli azionisti-clienti.

A metà dell’87 inaugurammo la nostra nuova bellissima fabbrica a Cassis: 20.000 metri quadri costruiti in otto mesi dalle fondamenta all’avviamento, rispettando piani e budget. Durante la costruzione Lenti era riuscito anche a completare le consegne dei vecchi prodotti Olivetti da Scarmagno, senza indurre quindi alcuna discontinuità produttiva, e ad iniziare ad assemblare le prime macchine nuove in una specie di garage vicino a Marsiglia.

Fronteggiammo allo stesso tempo le difficoltà specifiche della gamma di prodotti trattata, soprattutto quella di garantire un bassissimo tasso di errori: per l’errore più temuto dalle banche, l’emissione di denaro in eccesso, un tasso di errore di una banconota su centomila era considerato al limite dell’accettabile, ed occorrevano ovviamente molti giorni di prove per verificarlo. Le prove massicce con decine di migliaia di banconote vere, sia nuove che usate, potevano avvenire, per evidenti ragioni di sicurezza, solo in caveau di banche sufficientemente spaziosi. Il numero di divise da trattare, con caratteristiche molto diverse, era poi scoraggiante.

Quest’ultimo era però anche il prezzo del successo, perché le nostre macchine cominciarono rapidamente ad essere installate in tutto il mondo. Facevano eccezione solo il gli Stati Uniti: peccato, perché utilizzavano le banconote più standard e semplici da trattare. Ma in questo caso Piol ci risparmiò anche solo la fatica di provare, acquisendo un produttore americano di ATM, la Docutel. L’impossibilità per i prodotti Docutel di adattarsi a qualsiasi tipo di internazionalizzazione annullò ogni tentativo di coordinamento, ed i rapporti furono presto conclusi dal fallimento dell’azienda acquisita.

La vita in SIAB era difficile, perché i rapporti con i Marketing degli azionisti-clienti erano spesso burrascosi. Come socio al 50% la Bull pretendeva pari attenzioni nella definizione dei prodotti; per contro l’Olivetti, forte nel mercato bancario controllato in molti Paesi, ordinava l’80% della nostra produzione e reclamava quindi comprensibilmente la priorità. Comunque dopo i primi ATM per esterni completammo la gamma dei prodotti con vari altri tipi di terminali, anche indoor, per diversi tipi di transazioni bancarie self-service. La produzione arrivò rapidamente a diverse migliaia di unità l’anno e i nostri azionisti conquistarono in poco più di due anni il secondo posto nel mercato europeo dopo la NCR e a fianco dell’IBM.

In termini finanziari rispettammo il Business Plan iniziale e in meno di tre anni la SIAB arrivò come previsto al break-even, senza richiedere finanziamenti oltre al capitale iniziale.

La conclusione? A maggio dell’89, dopo un altro rivolgimento aziendale in Olivetti che aveva ripristinato alcune posizioni di management dell’84 cui ho accennato alla fine del capitolo precedente, venni convocato a Ivrea e mi fu comunicato laconicamente che per ridurre le tensioni tra i soci era stato concordato “dagli azionisti” un cambiamento del management della SIAB (ovvero io …). Chiusi il mio piccolo alloggio a Parigi, consegnai al mio successore le chiavi della Renault 25 aziendale, chiesi al Direttore del Personale dell’Olivetti di sbloccare alcuni cacciatori di teste (che normalmente, in quanto fornitori, non avrebbero “cacciato” tra i nostri dipendenti), e dopo tre mesi di generoso parcheggio nelle Strategie di Piol salutai l’azienda, questa volta definitivamente.

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