Conclusioni

Ho lasciato l’Olivetti con ricordi fantastici (quelli che ho riportato sono solo i più salienti, e mi spiace di non aver potuto parlare, per non dilungarmi molto di più, di tanti altri eventi vissuti e di tanti personaggi notevoli conosciuti in azienda) ma senza alcun rimpianto: infatti per me, quando sono uscito, l’azienda che mi aveva tanto affascinato e attirato non esisteva già più.

Presto anche dall’esterno divenne evidente un declino che ha portato l’Olivetti in un paio di decenni, attraverso scorpori, cessioni e smantellamenti, ad un ridimensionamento di ben oltre un ordine di grandezza ed al passaggio dal ruolo di competitore primario nel mondo dell’informatica a quello di medio distributore di prodotti per ufficio.

Molti si sono interrogati sulle ragioni di questa parabola, esprimendo motivazioni e giudizi più o meno circostanziati. Anch’io mi sento obbligato a dare un modesto contributo, derivato dai tanti anni dedicati con passione al lavoro in azienda. Tengo però a precisare che, in quanto tecnico e manager di progetti e di marketing, non mi sono mai trovato in posizioni tali da abbracciare la situazione complessiva dell’azienda e quindi da poterne valutare le scelte strategiche di conduzione. Men che meno posso poi esprimere giudizi su quanto avvenuto dopo la mia uscita, sicuramente il periodo più tormentato e difficile anche per chi osservava da lontano gli avvenimenti.

Ho accennato in vari momenti ai problemi che nel tempo avevano minacciato la solidità dell’azienda: la gestione finanziaria in certi periodi inadeguata (dalla quale erano derivate alcune delle crisi esplose nel tempo ed i conseguenti rivolgimenti), le scelte tecniche sbagliate (a proposito di alcune delle quali mi sono rimproverato se non altro l’impotenza a modificarle) e le divergenze interne (soprattutto quelle tra enti tecnici e commerciali); ma si tratta di problemi che di volta in volta erano stati affrontati e risolti in misura almeno sufficiente a garantire la continuità dell’azienda.

Ritengo invece che per la sorte dell’Olivetti sia stata cruciale la modifica dello scenario globale, causata dall’evoluzione della tecnologia e in conseguenza del mercato globale dell’ICT: l’integrazione su larga scala dei circuiti elettronici ha progressivamente trasferito la realizzazione dei sistemi nelle mani dei produttori di componenti, l’hardware non specializzato è divenuto una commodity (come i PC, che in aggregati di vari tipo coprono ormai tutte le esigenze di elaborazione, dai server fino ai supercomputer costituiti da array di migliaia di processori); per quanto riguarda il software e le tecnologie di base lo spazio competitivo si è ristretto ad un numero sempre più limitato di grandissimi operatori mondiali.

In questo contesto le aziende informatiche di impostazione tradizionale non avevano possibilità di sopravvivere. Infatti in Europa è scomparsa nell’ultimo decennio del ‘900 l’intera industria realizzatrice di prodotti informatici: non solo l’Olivetti, ma Bull, ICT, Nixdorf e le divisioni informatiche di Siemens e Philips; analoghe stragi sono avvenute per molte aziende in Giappone ed anche in USA.

Per l’Olivetti è stata tentata una strategia di fuga: quella dell’integrazione dell’informatica con le comunicazioni, ricercata più volte prima all’interno creando la consociata Olteco, poi con un investimento nella canadese Northern Telecom, con l’alleanza AT&T, e infine con l’iniziativa Omnitel-Infostrada (sull’ultima scalata alla Telecom Italia è forse meglio sorvolare).

Le competenze disponibili in azienda non hanno però sorretto questi tentativi di penetrare in un settore non familiare, mentre il partner di volta in volta individuato non ha risposto all’esigenza di essere allo stesso tempo vitale, competente e non tanto pesante da rivelarsi schiacciante. Il risultato di tutti questi tentativi è stato purtroppo solo una decrescente focalizzazione del’Olivetti dal business in cui aveva la maggiore introduzione.

Io credo invece che l’Olivetti, a differenza dalle altre aziende informatiche europee citate prima, avrebbe potuto capitalizzare sulla penetrazione conseguita negli anni ’70 e ’80 nei mercati in cui aveva ottenuto maggior successo, la fascia informatica bassa ed in particolare l’automazione della periferia bancaria. Avrebbe potuto coltivare cioè l’informatica del valore aggiunto: unità periferiche specializzate, integrazione di sistemi e soprattutto fornitura di applicazioni e servizi, fino alla presa in carico dell’informatizzazione di piccoli utenti e di settori periferici degli utenti più grandi.

Hanno compiuto questo percorso altre aziende, in particolare un colosso come l’IBM (ben più vulnerabile all’erosione dei margini sull’hardware, se si pensa che negli anni ‘80 si reggeva ancora vendendo computer a più di sei volte il costo industriale), e credo che avrebbe potuto farlo con successo anche una parte molto significativa dell’Olivetti, contraendo in sostanza solo l’area produttiva.

Dal fatto che questo non sia avvenuto credo di poter dedurre che questa possibilità non è stata capita o, più probabilmente, non si è avuta fiducia nella possibilità di ricavarne risultati accettabili. Ha prevalso il timore di non sopportare la pressione della concorrenza. In sintesi è risultata determinante per la decadenza dell’azienda la mancata individuazione di (e confidenza in) una linea strategica adeguata.

Credo che da questa situazione sia derivato l’orientamento, purtroppo coerente con i nostri tempi, a non vedere più l’azienda come un’appassionante impresa industriale e umana, da condurre continuamente, tra sacrifici e rischi, verso grandi e nuovi obiettivi, ma come un oggetto, confrontato in termini di redditività con ogni altro possibile impiego finanziario e quindi giocato in modo opportunistico, soprattutto in fretta, prima di vederne crescere le perdite.

Come flash indicativo, che forse farà sorridere qualcuno perché riguarda un aspetto che ha significato quasi solo personale, ricorderò che l’ultima realizzazione cui ho contribuito col mio lavoro in Olivetti, la SIAB (un esempio di iniziativa di valore aggiunto applicato ad un mercato familiare all’Olivetti, che non mi risulta avesse mai creato problemi o fatto perdere soldi) è stata venduta come tanti altri “pezzi” in occasione della scalata alla Telecom: e a che scopo se non per fare un po’ di cassa? La SIAB è finita in mano alla Diebold, il leader americano degli ATM, che ancora oggi utilizza lo stabilimento di Cassis per assemblare macchine per il mercato europeo, nel quale è entrata usando questo lasciapassare.

In conclusione penso che in Olivetti, azienda nata dalla mentalità industriale, dal coraggio imprenditoriale, dalla determinazione e dalla sensibilità sociale di Camillo e di Adriano, siano prevalse nel tempo mentalità totalmente diverse da quella dei fondatori. Essi sarebbero stati anzi probabilmente giudicati, da chi guidava l’azienda negli ultimi anni della sua storia, come uomini superati.

Il fatto è che ogni azienda, dopo la fase di creazione e di espansione, che dipende in modo essenziale da uomini orientati a identificare il proprio successo con quello dell’entità per cui si battono, diventa un bersaglio interessante per altri tipi di protagonisti, in genere ben attrezzati per le scalate ma poco propensi, una volta giunti al comando, a svolgere il paziente e competente lavoro necessario a sostenere e rinnovare un’organizzazione attaccata dai concorrenti e sfidata dall’evoluzione del mercato.

Certo, difendere un’azienda in difficoltà comporta investimenti, periodi di bassa remunerazione ed anche rischi di fallimento, ed è sempre difficile discernere fino a qual punto valga la pena di farlo. Ma se si pensa solo a salvare il denaro investito, trasferendolo verso le alternative finanziarie più promettenti, il fallimento delle strutture che si abbandonano diventa inevitabile, e con esso l’impoverimento complessivo della società civile in cui sono inserite.

Questo tipo di atteggiamento ha portato al declino negli ultimi decenni non solo l’Olivetti, ma interi settori industriali del nostro Paese, senza che la società civile, attraverso l’establishment politico, tentasse di reagire. Evidentemente altri Paesi si difendono meglio del nostro da questo rischio di decadenza, generando non solo dei “falchi” finanziari ma anche dei veri imprenditori industriali e dei governi capaci di garantire loro contesti favorevoli.

FINE

(torna all’inizio della storia)

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