Pianificazione Prodotti di Ivrea – 1967 / 1977
E’ alle iniziative di rilancio dell’Olivetti nell’elettronica che si riallaccia, nella primavera del 1967, la mia storia personale. Come ho ricordato, emergendo dalla fase di impegno totale nel progetto del 115 e poi nell’impostazione del 130 a Pregnana mi trovai esposto all’attrazione della sirena Olivetti, che da Ivrea prospettava idee ambiziose e argomenti economici personalmente convincenti.
Il lavoro in OGE era interessante, ma vi aleggiava sopra inevitabilmente un’incertezza sulle possibili decisioni future della proprietà straniera. Per quanto riguardava poi la localizzazione io, in quanto bolognese trapiantato da pochi anni a Milano, non avevo vincoli particolari; l’aria e l’ambiente di Ivrea si prospettavano anzi molto migliori di quelli di Milano per la mia piccola famiglia in crescita. Così, quando ricevetti un’offerta (sponsorizzata tra l’altro dal mio precedente capo Pistelli, che si era trasferito poco prima di me), non esitai a fare le valigie e registrai la mia seconda assunzione in Olivetti.
La sirena aveva però funzionato in un modo così rapido che non avevo riflettuto molto sul tipo di destinazione: infatti il mio nuovo incarico a Ivrea non riguardava i progetti, ma rientrava nella nuova funzione di Product Planning aziendale, affidata a Luigi Pistelli ed inserita nella Direzione Marketing Centrale, capitanata da Elserino Piol.
Mi venne affidato il settore delle macchine da calcolo programmabili e delle contabili elettroniche. Al nostro fianco operava un gruppo che seguiva i terminali per sistemi on-line, soprattutto terminali bancari. Altri gruppi seguivano i prodotti tradizionali, scrittura e calcolo, anch’essi in evoluzione verso l’elettronica.
Rispetto all’azienda ero in una posizione nodale, ma con un serio inconveniente: infatti i progettisti della R&S non erano esecutori di iniziative concordate, ma si presentavano come interlocutori decisamente contrapposti. Va sottolineato che erano interlocutori competenti e rispettabilissimi (richiamo quanto detto prima a proposito di Perotto e dei suoi collaboratori) e per me, ben accolto in quanto ex progettista, era anche facile suggerire loro delle idee, sia che fossero mie sia che derivassero dal mercato.
Quando però le idee del Planning si ponevano in conflitto con orientamenti già assunti, avevano ben poche possibilità di essere prese in considerazione positivamente. Il fatto è che i progettisti tendono di norma a fare quello che pensano di poter far bene sul filone dell’esperienza accumulata, nonché a difendersi dalle richieste commerciali e di marketing, che non di rado appaiono loro difficilmente realizzabili o addirittura strane, quando non addirittura stupide.
Io per contro avevo ormai assorbito dalla GE un po’ della cultura industriale americana, secondo la quale un’iniziativa di progetto va definita nei suoi obiettivi, verificata attraverso studi del mercato e della concorrenza e formalizzata con specifiche preliminari prima di essere approvata e finanziata. I progettisti Olivetti operavano invece sempre con la libertà che avevo potuto assaporare (nei suoi aspetti positivi) nella Divisione Elettronica; definivano cioè iniziative, prodotti e scelte in sostanziale autonomia, e dopo che l’avevano fatto la redazione delle specifiche da parte del Product Planning, anziché essere la definizione degli obiettivi di progetto, diventava essenzialmente un’attività notarile.
Un esempio di idea che potei trasfondere facilmente dall’esperienza GE perché non si poneva in conflitto con i progetti in corso fu quella di normalizzare il collegamento alle varie macchine delle unità periferiche (salvo quelle più strettamente integrate), utilizzando un’interfaccia che nella versione Olivetti fu denominata IPSO (Interfaccia Periferica Standard Olivetti).
Come esempio di disaccordo di fondo ricordo invece che alcuni dei progetti che seguivo erano stati impostati sull’impiego, come supporto magnetico esterno, di grosse cartucce contenenti un nastro magnetico a più piste richiuso su sé stesso a loop, guidato dai fianchi della cartuccia per formare un pacco di “riccioli” disposti alla rinfusa in un piano.
Questa tecnologia, familiare in Olivetti, era molto economica, ma comportava tempi medi di accesso casuale ai dati e alle istruzioni registrate nelle cartucce pari a mezzo giro del nastro, cioè parecchi secondi. Nelle stesso tempo la concorrenza si stava ormai largamente orientando, per le memorie magnetiche ad accesso casuale, verso dischi di varie forme (fissi e rimovibili, rigidi e poco più tardi flessibili), con tempi d’accesso di frazioni di secondo. Spingere i progettisti a riconsiderare le impostazioni di prodotto basate sulle cartucce si rivelò un’impresa impossibile, almeno entro tempi compatibili con la mia impazienza giovanile.
Una battaglia ancora più dura fu quella contro la convinzione “olivettiana” che un calcolatore dovesse avere come organo primario di output una stampante, idea corretta in confronto ai display di una sola riga delle calcolatrici (che permettono di controllare solo l’ultimo dato digitato), ma certamente non valida se si considerano le possibilità dei display di pagina, interattivi ed anche grafici. Questa idea persisteva nonostante che un prodotto brillante come la P101 fosse stato rapidamente sorpassato sul mercato da macchine Hewlett-Packard e Wang che interagivano primariamente attraverso display.
Rendendomi conto che certi sviluppi divergevano dalle tendenze del mercato e dei prodotti più direttamente concorrenti e che sarei stato impotente a sfilarli dai vicoli ciechi che avevano imboccato, esaurii rapidamente la mia pazienza e finii per trascorrere buona parte del mio tempo a programmare, sviluppando algoritmi di calcolo molto ottimizzati per la P101: ma ovviamente non era questo il lavoro che avrei dovuto fare al Planning. Nel giro di meno di un anno di frustrazioni giunsi nel 1968 a dare le dimissioni, per passare ad un’azienda di telecomunicazioni di Vimercate, la Telettra, che volendosi orientare verso la telefonia elettronica apprezzava la mia esperienza sui calcolatori.
Non mi dilungherò qui sulla parentesi Telettra, perché non c’entra nulla con il resto della storia; forse meriterebbe una nota di ricordi a sé. Dirò solo che in questa azienda svolgevo un lavoro sui sistemi di controllo digitale della commutazione telefonica, molto interessante ma anche preoccupante, considerando che era condotto a livello quasi individuale in un settore dominato da giganti industriali. Inoltre la mia famiglia era accasata a Ivrea e che quindi subivo, lavorando in Telettra, il disagio della pendolarità.
In questo contesto nel giro di sei mesi la sirena Olivetti si fece sentire di nuovo prepotentemente, portando anche come argomenti nuove iniziative interessanti: il gruppo R&S aveva cominciato a lavorare finalmente sui dischi magnetici e aveva deciso di sviluppare nuove unità di elaborazione. Così accettai il rilancio e registrai la mia terza (!) assunzione in Olivetti.
Tornai a Ivrea nella stessa posizione di prima, con il proposito di avere più pazienza ma con problemi in realtà di ben poco attenuati. Per un po’ di tempo seguii prodotti come la P652 (sostanzialmente una P101 potenziata, ma condizionata da scelte analoghe), la P203 (una P101 accoppiata con una macchina per scrivere per produrre fatture in modo più moderno dell’Audit con UME), ed alcune contabili elettroniche, tra cui la A770, con una meccanica complessa capace di trattare più tipi di carta – due moduli continui, schede contabili a pista magnetica, ecc. – ma basata, ahimè, su una delle cartucce di cui ho parlato in precedenza. Prodotti che per le loro caratteristiche non consentirono all’azienda di migliorare sensibilmente la sua posizione sul mercato.
Più interessante avrebbe potuto essere il lavoro relativo all’E900, sviluppata sotto la guida di Luigi Mercurio con tecnologie molto simili a quelle con cui avevo impostato a Pregnana il GE 130, che essendo ancora in fase di impostazione sarebbe stato più permeabile a trasfusioni di idee. Anche qui però non mancarono le frustrazioni.
In quel periodo si stava infatti affacciando sul mercato la seconda generazione di una famiglia di macchine, dedicate inizialmente al settore dei controlli industriali e della strumentazione ma estremamente flessibili, note come “minicomputer”. Se fosse dipeso da me e dalle mie idee personali l’E900 a 16 bit sarebbe diventato qualcosa di molto simile al minicomputer PDP11, un prodotto che sarebbe stato annunciato di lì a poco dalla Digital Equipment Corporation con enorme successo.
Invece non andò così: pur utilizzando una tecnologia della stessa classe dei minicomputer contemporanei, l’architettura dell’E900 venne condizionata all’impiego obbligato di una ROM come deposito di microprogrammi (firmware) per realizzare dei set di istruzioni complessi – potenti ma anche relativamente lenti – destinati ad orientare la macchina verso specifici settori applicativi. Il progetto E900 originò attraverso queste personalizzazioni, diverse macchine di successo che vedremo dopo, ma per il vincolo di non rendere direttamente accessibile la programmazione dell’unità di base non poté mai offrire la flessibilità di un minicomputer classico.
Il risultato di questa scelta fu che, per spingersi in campi di applicazione non tradizionali per l’Olivetti, l’organizzazione commerciale, sotto la guida dell’instancabile ed inesauribile Piol, iniziò ad utilizzare un minicomputer acquisito all’esterno – il GP16 della Selenia – al cui supporto furono dedicate in area commerciale fior di risorse.
Questo non fu un caso isolato, ma solo l’antesignano di una serie di situazioni analoghe. Per citarne un altro, forse il più eclatante, ricorderò che Piol individuò e acquisì un progetto della Sycor, piccola società di Ann Harbour nel Michigan; si trattava di un sistema di raccolta dati da tavolo su cassette magnetiche (tipo musicassette Philips), moderno rispetto alla tradizionale raccolta su schede o nastri di carta e molto meno costoso dei sistemi di raccolta su nastro magnetico tradizionale. Inoltre la soluzione ideata dalla Sycor aveva una caratteristica mancante, come ricordato, alla cultura Olivetti: l’interazione con l’operatore attraverso un display di pagina.
Con la spinta dell’organizzazione commerciale il prodotto, denominato Olivetti DE 520, ebbe un buon successo, non solo in applicazioni di data entry ma anche come terminale, e quindi anche a spese di energie sottratte a (e in concorrenza con) i prodotti interni.
Con i progettisti che procedevano in direzioni scelte da loro stessi e l’organizzazione commerciale che si difendeva pragmaticamente prendendo altre strade, il comportamento dell’azienda appariva evidentemente poco razionale e non c’era da trarre gran soddisfazione dal lavoro di Planning.
Purtroppo, come vedremo anche nei capitoli successivi, il top management Olivetti non sembra sia mai stato capace di superare questa dicotomia tra un atteggiamento non abbastanza aperto verso le esigenze di mercato dell’area tecnica e la conseguente tendenza dell’area commerciale a fughe verso opportunità esterne, purtroppo non seguite da alcuna integrazione seria con i piani industriali. Solo una sintesi tra le due tendenze avrebbe potuto portare, credo, a strategie aziendali veramente efficaci.
Un parziale miglioramento sopravvenne nei primi anni ‘70: a seguito del distacco completo dell’Olivetti dalla GE che portò, dopo il rientro degli specialisti già raccontato, ad un riflusso di top management. Arrivò ad Ivrea, come Amministratore Delegato e Direttore Generale, Ottorino Beltrami e al suo seguito Marisa Bellisario, un manager di cristallina integrità e instancabile energia cui venne affidata sia la Pianificazione Prodotti, con Luigi Pistelli, che una Pianificazione Operativa, con Giorgio Panattoni.
Nel nuovo contesto il Planning cominciò a procedere in modo meno frustrante: l’ulteriore trasfusione di cultura GE ed il nuovo schema di autorità assicuravano cicli di pianificazione più razionali. Allo stesso tempo Piol si concentrò sulle strategie aziendali, divenute un’unità organizzativa autonoma, orientata sempre più verso l’individuazione di opportunità di investimento in aziende esterne con cui si ipotizzava esistessero delle sinergie. Peraltro, nella quasi totale mancanza di integrazione industriale di queste acquisizioni, le iniziative di investimento esterno ebbero, tranne i casi prima citati, risultati limitati, e Piol tornò presto all’operatività commerciale, col duro compito di guidare le sorti perennemente critiche dell’Olivetti Corporation of America.
Negli anni ’70 le personalizzazioni dell’E900 diedero luogo, per il settore da me pianificato, ad una macchina gestionale, erede delle macchine contabili più sofisticate, denominata A7, e ad una macchina da calcolo programmabile da tavolo denominata P6060, direttamente programmabile in BASIC, per la quale azzeccammo (quasi) una scelta futura del Marketing IBM, lanciandola con la denominazione Personal Minicomputer.
Purtroppo mentre ormai il supporto magnetico accettato senza discussione erano i dischi, soprattutto i floppy disc – e quindi quella battaglia era stata vinta – l’istanza di realizzare macchine a display era rimasta insoddisfatta: la A7 non ebbe mai un display, e credo che abbia avuto poca fortuna sul mercato anche per la conseguente immagine di macchina contabile convenzionale.
Al P6060 fu collegato un video solo come periferica opzionale, essenzialmente un ripetitore del testo stampato su righe che scorrevano, senza capacità interattive e grafiche. Peccato, perché nonostante questa limitazione il P6060, che per molti altri aspetti aveva una concezione originale, tenne il mercato a lungo e fu oggetto di applicazioni piuttosto varie. Cito ad esempio quella, che i meno giovani ricorderanno di aver visto in televisione nelle trasmissioni di gare sportive, dell’utilizzo del sistema per le generazione dinamica in sovrimpressione sul video dei dati di gara, tempi e classifiche.
Su iniziativa del Planning cercammo anche di costruire per il P 6060 un software antesignano degli attuali fogli di lavoro (spreadsheet), che purtroppo però, interagendo tramite stampante, non poteva operare su tabelle a due dimensioni ma solo su una dimensione orizzontale libera ed una verticale vincolata a scorrere in un solo verso.
Nel settore dei terminali, l’E900 dette origine alla famglia TC800, una macchina sulla quale un sistema operativo denominato COSMOS (creatura di Alessandro Osnaghi, progettista ma anche insegnante al Politecnico di Milano) supportava un’originale architettura di macchine mono- e multi- posto di lavoro, sia in configurazione singola che cluster (un Master e più Slave). Questo permetteva di rispondere alle più varie esigenze dei posti di lavoro di una filiale bancaria.
Per il TC800, a fronte dei chiari orientamenti del mercato e della concorrenza, il Planning aveva finalmente ottenuto dal progetto che i posti di lavoro interagissero attraverso dei display, anche se inizialmente piccoli, da 5 e 9 pollici. Grazie alla sua architettura, il TC800 fu un prodotto di notevole successo e permise all’Olivetti di conquistare una bella quota del mercato bancario degli anni ’70, praticamente in tutto il mondo tranne il Nordamerica, mercato assai duro da penetrare perché orientato verso soluzioni più economiche di filiali “non intelligenti”.
Al di sotto dei minicomputer ci occupammo in quel periodo anche di varie macchine più piccole, basate sui primi microprocessori, inizialmente a 4 bit, poi un antesignano di quelli a 8 bit, denominato Micro 8 e sviluppato con l’Olivetti dalla Mostek, infine quelli di serie introdotti da Zilog e Intel.
Per il settore a me affidato ricordo il P6040, calcolatore programmabile con un linguaggio a formule, che ebbe limitata accettazione dal mercato, complice la solita configurazione a stampante (più un piccolo display da calcolatrice). Andò meglio alle contabili A4 ed A5/A6, che ereditarono il mercato delle Audit, con la banda perforata sostituita dalla cassetta di nastro magnetico e dal floppy disc, e ancor meglio successivamente ai BCS 2000 e 3000, che sostennero molto bene l’Olivetti nel settore gestionale per diversi anni.
Malgrado alti e bassi nei risultati, lo spirito aziendale in pieni anni ’70 era alto. Per darne un’idea ricordo un episodio che probabilmente nessun altro conosce. Un giorno, in presenza di Beltrami, ricevemmo al settimo piano, l’attico del Palazzo Uffici di Ivrea, una visita di rappresentanti della GE che venivano a presentarci la tecnologia del futuro secondo la loro interpretazione del momento, cioè il time sharing, la condivisione a distanza di un grande calcolatore.
L’organo di collegamento remoto era una telescrivente TE300 Olivetti, ma quel nostro contributo era banale e i visitatori enfatizzavano l’intelligenza del potente calcolatore remoto. Iniziata la dimostrazione, il presentatore caricò una pagina di dati (righe “DATA” di un programma BASIC), digitò il comando per avviare il calcolo … e tutto si piantò nel silenzio, senza neppure un messaggio di errore. Mentre in sala dilagava il panico, sbirciando sopra le spalle del presentatore mi accorsi di un’irregolarità nei dati caricati e dissi: “mi pare che in quella riga abbia dimenticato una virgola”. L’errore venne corretto e tutto ripartì senza ulteriori problemi. Mentre venivano stampati i risultati, l’ing. Beltrami si aggirava attorno tutto soddisfatto mormorando: “ma guarda, anche noi abbiamo qualcosa da insegnare a loro!”.
Ho letto con interesse questa storia,da progettista ho vissuto in diretta tutta quella fase che va dal 1967 fino agli anni 80 periodo in cui la tecnologia galoppava, si lavorava sulle specifiche dei commerciali ancorati alla macchina contabile su scheda, alla stampante di passo, alla memoria opzionale che facevano da contraltare ai meccanici contrari a togliere il ferro dalle macchine.