di Lino Naj Fovino
La rinata casa editrice “Edizioni di Comunità” ha recentemente pubblicato “Democrazia senza partiti”, un opuscolo edito dal Movimento Comunità nel ’49 con il titolo “Fini e fine della politica”. La scelta del nuovo titolo è chiaramente una concessione all’attuale clima politico italiano, fortemente condizionato dalle polemiche sulla degenerazione dei partiti, anche se nella introduzione Stefano Rodotà giustamente rileva che “..è agevole concludere che la critica ai partiti di Adriano Olivetti non ha nulla a che spartire con le ripulse di questi tempi, perché è aliena da pericolosi scivolamenti verso le suggestioni del no alla politica o del rifiuto d’ogni mediazione tra cittadini e governanti…”.
Per comprendere a fondo il pensiero olivettiano bisogna riferirsi a “L’ordine politico delle Comunità” scritto da Adriano tra il 1943 e il 1944 e che aveva visto la luce prima in Svizzera, durante l’esilio, e poi in Italia nel ’45.
Olivetti era partito, nell’Ordine politico delle Comunità, da una severa osservazione sulle “aree critiche della società:
1. dissociazione tra etica e cultura e tra cultura e tecnica
2. conflitto tra Stato e individuo
3. deformazione dello Stato liberale ad opera del grande capitalismo e di sistemi rappresentativi insufficienti
4. mancanza di educazione politica, in generale, e di una classe politica illuminata, in particolare
5. obsolescenza della struttura amministrativa dello Stato”
Aveva già intravisto, alla fine del secondo conflitto mondiale, la fine dell’era delle ideologie, quando ogni grande partito prometteva un futuro totalmente diverso ed egualmente radioso, sulla base di adesioni acritiche ai grandi blocchi internazionali.
Ma questo Ordine politico nuovo proposto da Olivetti non sembra escludere la lotta politica né tantomeno i partiti, come il titolo della recente ripubblicazione farebbe pensare. Afferma soltanto in essa che la lotta politica in una situazione in cui lo Stato prende forma e vita dalla Comunità non è che si esaurisca, ma è originata esclusivamente nell’ambito delle Comunità. E questo non esclude la formazione di partiti, voleva significare democrazia senza partiti potentemente organizzati e pervasivi quali abbiamo sino ad oggi avuti, dediti prima di tutto all’occupazione e all’autoconservazione del potere; auspicava una politica più attenta alle immediate esigenze dei cittadini e meno a ideologie di difficile – o impossibile – realizzazione. Al proposito torna in mente una citazione di Amartya Sen: “le istanze della giustizia chiedono di privilegiare l’eliminazione dell’ingiustizia manifesta anziché concentrarsi sulla ricerca a lungo termine della società perfettamente giusta”.
Con forza Adriano Olivetti pone il problema della rappresentatività e afferma il mandato politico, nella sua vera essenza, è solo e soltanto un atto di fiducia degli uomini in un uomo, e a tutt’oggi dobbiamo purtroppo constatare come esso sia risolto in modo assai poco soddisfacente. Questo tema viene ampiamente affrontato e discusso ne L’ordine politico delle Comunità, a cui conviene a questo punto tornare a riferirsi.
Il libro può essere visto come formato da due parti, non completamente distinte, ma quasi compenetranti. Nella prima si delinea una nuova struttura dello Stato, nella seconda si espone uno schema assai complesso di formazione delle classi dirigenti, gli Ordini politici. Poiché queste, nel progetto di Olivetti, fornirebbero membri non solo all’alto Funzionariato, ma anche a gran parte delle Camere alte delle Regioni e dello Stato, e quindi avrebbero una forte incidenza sulla rappresentatività politica di tali organismi, sembra opportuno lasciare a esperti di istituzioni e di ingegneria costituzionale una discussione sulla materia.
La prima parte del testo invece, la costruzione di uno stato federale, pare ancor oggi di grande attualità, in quanto capace di suggerire soluzioni atte ad avere istituzioni efficienti, più snelle e meno costose, più rispondenti alle esigenze di una società moderna e soprattutto più adatte a sollecitare la partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
Si riportano a questo punto estratti dal testo L’Ordine politico delle Comunità:
I due fondamenti della società sono: democrazia politica e libertà individuale. Sia accettato e spiritualmente inteso un nuovo fondamento atto a ricomporre l’unità dell’uomo: la Comunità concreta. L’idea fondamentale della nuova società è di creare un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che svolgono la loro vita sociale e economica in un conveniente spazio geografico determinato dalla natura o dalla storia, la Comunità, la cui “misura umana” è definita dalla limitata possibilità che è a disposizione di ogni persona per dei contatti sociali. Tutti i problemi, in una Comunità, entrano in limiti semplici e facilmente controllabili. La Comunità sarà il dominio dell’uomo, La Regione è controllabile soltanto col mezzo di un autoveicolo, lo Stato col mezzo di un aereo o di una ferrovia. Unica, completamente umana, è la Comunità. La popolazione delle Comunità potrà oscillare tra i settantacinque e i centocinquantamila abitanti (oggi 100 – 200mila, in rapporto alla popolazione del 1945).
La Comunità è la cellula base dello Stato federale (ha Assemblee elettive, i Comuni restano come entità amministrative delle Comunità, le Province scompaiono). Lo Stato prenderà il nome di Stato Federale delle Comunità. L’aggettivo “federale” è stato prescelto perché ad esso corrisponderà un sistema di decentramento e autonomia, fondato sulla Regione e sulla Comunità. Il nucleo fondamentale dello Stato, la Comunità, informa delle sue caratteristiche tutta la nuova vita politica (ha la stessa organizzazione funzionale dei livelli superiori: Finanze, Giustizia, Sicurezza, Istruzione, Sanità, Urbanistica, etc).
Lo Stato federale delle Comunità sarà pertanto caratterizzato da un ordinamento fondato su:
• autonomie regionali stabilite dalla costituzione
• autonomie delle Comunità stabilite dalla Costituzione
• organi federali con decentramento nello Stato regionale e nelle Comunità
• organi regionali con decentramento nelle Comunità
L’importanza grandissima della Comunità consiste nell’essere questa l’esclusivo organo esecutivo dei governi federale e regionale. La costituzione federale prevederà:
1. una competenza esclusiva dello Stato federale su talune materie
2. una competenza esclusiva degli Stati regionali e delle Comunità su altre materie
3. una competenza concorrente con priorità federale
4. la competenza normativa, allo Stato federale lo stabilire dei principi, alle Regioni e alle Comunità le regolamentazioni.
Il giudizio democratico, sempre presente nella formazione del nuovo Stato, è l’unico mezzo consentito alla società per giudicare il valore morale di coloro ai quali vengono affidate responsabilità politiche.
La Comunità è l’ambiente adatto alla formazione di tale giudizio, perché nessuno vi può condurre vita corrotta, né operare con bassezza senza che la pubblica opinione venga, tosto o tardi, ad averne esattissima informazione, e non ci può essere nessuno che accompagnando a grande sapere magnanimità di sentimenti non venga debitamente apprezzato.
L’attività legislativa potrà estendersi in modo notevole anche nel campo della competenza concorrente, prevedendosi la facoltà per le Comunità di legiferare in importanti domini. Tali leggi resteranno in vigore sino a che lo Stato regionale o federale non emani una legge sulla stessa materia. Si comprende assai bene il grande valore educativo e sperimentale di una tale possibilità. Definita la Comunità come nucleo fondamentale del nuovo Stato, si stabilisce un collegamento e coordinamento politico e amministrativo fra le Comunità e lo Stato federale nell’entità storica italiana: la Regione o gruppi di Regioni là dove ciascuna di esse formerebbe unità di insufficiente ampiezza. Gli Stati regionali saranno determinati, nella grande maggioranza, secondo criteri storici o economici-geografici e in guisa da costituire unità da tre a cinque milioni di abitanti circa.
Il decentramento sarà realizzato con la creazione di organi capaci di assumere molteplici funzioni dello Stato unitario, e che pertanto potranno legiferare nei limiti che saranno definiti dalla nuova Carta costituzionale fondamentale. Lo Stato federale non rinuncerà tuttavia alla sua missione nazionale e assisterà – almeno temporaneamente – le Regioni più deboli economicamente o d’arretrato sviluppo, in qualsiasi direzione tale ritardo si sia manifestato. Il principio autonomistico sarà salvaguardato e si potranno esistere organizzazioni autonome interregionali, alla cui composizione e funzionamento lo Stato federale non prenderà parte né diretta né indiretta. Gli esperimenti più audaci, in talune Regioni, dando risultati positivi, favoriranno una più coraggiosa legislazione nelle regioni limitrofe. Successivamente, lo Stato federale imporrà, ove necessario, le riforme maturate e sperimentate nei singoli Stati-membri ove le forze interne si siano dimostrate, per qualunque motivo, inadeguate a risolvere problemi di evidente necessità (quindi 4 – 7 milioni oggi, all’epoca l’Italia aveva 45 milioni di abitanti).
Emergono da queste enunciazioni tutti i principi del federalismo: decentramento, autonomia e coordinamento; sussidiarietà, fare al livello superiore solo ciò che non si può o non è conveniente fare a quello inferiore; solidarietà, aiuto alle parti dello Stato più arretrate; competitività, confronto dei risultati e trasferimento delle procedure più avanzate. Ma forse il risultato più auspicato da questa forma delle istituzioni è quello di avere una democrazia partecipativa, consapevole e meritocratica.
Partecipativa perché sollecita tutti i cittadini a vivere la vita sociale e a discutere i suoi problemi, e poi scegliere e controllare i propri rappresentanti nella gestione della cosa pubblica; democrazia consapevole perché basata sull’aumento delle conoscenze di tutti i componenti la società; meritocratica perché nello Stato federale delle Comunità gli esami non finiscono mai e chi vuol fare carriera nella vita politica e assumere incarichi più vasti e di maggiore responsabilità, non solo è sottoposto al controllo della vita quotidiana a contatto cogli altri membri della Comunità, ma deve dimostrare coi risultati di aver ben adempiuto ai compiti affidatigli.
Con queste proposte Adriano Olivetti descrive e prefigura esattamente una condizione della vita sociale e democratica quale in tempi più recenti Samuel Huntington sintetizzò colla frase: “che in una più avanzata concezione della democrazia i punti cruciali sono la partecipazione politica, il dialogo e la pubblica interazione… e che la democrazia va intesa come governo del dibattito e non solo come elezioni libere, corrette e aperte a tutti”.
E questo ancora ci manca.
Ivrea, 04.04.13