di Gianni Di Quattro
Dopo Aurelio Peccei, il primo amministratore delegato dopo l’ingresso nel 1964 del gruppo di intervento in Olivetti, Visentini, il Presidente, che aveva dalla sua la maggioranza in Consiglio e che per quasi venti anni ha determinato tutte le decisioni dell’azienda, nominò due amministratori delegati con firma congiunta, nel senso che nessuno dei due aveva qualche potere senza l’accordo con l’altro, Roberto Olivetti, figlio di Adriano, e Bruno Jarach, proveniente dall’ufficio acquisti della produzione e in qualche modo rappresentante di quello che si poteva definire la lobby eporediese. Era anche un importante membro della famiglia ebraica milanese. Tra parentesi Aurelio Peccei, uomo proveniente dall’ambiente Fiat, ex Presidente della Fiat Argentina, uomo di cultura, europeista ed importante protagonista del Trattato di Roma, ebbe vita breve perché la sua visione della Olivetti era molto diversa da quella del Presidente.
La convivenza tra i due amministratori delegati fu difficile. Da una parte, un uomo vicino alla cultura e alla visione del padre Adriano, aveva favorito gli investimenti e le decisioni nella elettronica come futuro dell’azienda, credeva nei talenti, nella organizzazione e nel futuro. Dall’altra parte, un conservatore, rappresentante della produzione e della ricerca di Ivrea, sicura e ferma al mondo della meccanica, pensava, infatti, che l’elettronica era ancora lontana, malgrado le prime calcolatrici giapponesi già circolavano nel mercato italiano, vicino al Presidente, capace di controllare e bloccare qualsiasi cosa. E così il Presidente decise ad un certo punto dato che l’azienda sembrava immobile, di far fuori entrambi anche per sollecitazione di consulenti ed operatori di mercato come banche di rilievo. Peccato per Roberto Olivetti, uomo di grande valore professionale e umano, vero erede del padre e che sarebbe stato il vero continuatore della visione del padre.
L’idea del Presidente era di nominare amministratore delegato un dirigente ex Olivetti di grande prestigio sul mercato anche per i risultati ottenuti in vari ruoli in aziende italiane ed anche americane, ex ammiraglio della Marina decorato con onore e cioè Ottorino Beltrami, possibilmente insieme a Paolo Volponi, all’epoca direttore del personale, vicino a Visentini, noto scrittore e che sognava una Olivetti umana, piena di cultura, diversa e in continuità con il pensiero di Adriano.
L’operazione a Visentini non riuscì perché Beltrami non volle accettare di condividere il ruolo ed allora il Presidente capì che non aveva alternative e comunicò a Paolo Volponi che non era in grado di mantenere la promessa fatta. Fu un brutto colpo per quest’ultimo che ci contava molto, aveva voglia di lavorare per costruire il suo sogno, una Olivetti umana come in qualche modo Adriano Olivetti stesso l’aveva pensata. In un libro bello di Maria Laura Ercolani è descritto questo momento della vita di Volponi che si dimise per andare a dirigere a Torino la Fondazione Agnelli.
È difficile dare giudizi con il senno di poi, così come fare ipotesi che non potrebbero essere mai provate. Però forse questa è stata una occasione persa. Se Beltrami e Volponi avessero trovato il modo di lavorare insieme, certamente sarebbe nata una Olivetti interessante, forse avrebbero potuto convincere il Presidente a trovare altre soluzioni piuttosto che, ad un certo punto, cedere tutta l’azienda a Carlo De Benedetti. Visentini pensò che non ci fossero altre soluzioni perché dopo cinque anni di gestione Beltrami la situazione finanziaria era pesante, ma l’azienda era più viva di prima ed aveva effettuato in un tempo record la trasformazione dalla meccanica alla elettronica recuperando il tempo perduto. Vuol dire che avrebbe potuto trovare facilmente più sostegni finanziari e approfittare della sua nuova situazione per quanto riguarda i prodotti e la loro competitività, cosa che fece De Benedetti nella sua prima parte della sua attività in Olivetti (la sua seconda parte è un’altra storia). Visentini fu irremovibile nella sua decisione di cedere l’azienda e neanche proposte che lo stesso Beltrami con l’aiuto di Mediobanca aveva preparato riuscirono a convincerlo.
Peccato viene da dire, peccato che questi due uomini, forse i migliori nel loro campo che erano nell’orbita della Olivetti non abbiano trovato il modo di andare d’accordo, di sostenersi, di mettere le loro capacità al servizio di una azienda che aveva una storia che meritava di riprendere, di rinnovare verso un’altra stagione splendida non solo di successi imprenditoriali classici, ma anche culturali e sociali. Peccato!
Caro Gianni, ho letto come sempre con piacere la tua storia.
Adesso ti racconto un pezzetto della mia per verificare se si incastra correttamente con la tua. Laureatomi nel 1965, ho finito il militare nel 1966 e già entro la fine di quell’anno, parallelamente, ho avuto tre colloqui in Olivetti, due a Ivrea (Palazzo Uffici) ed uno a Milano (Piazza Cordusio).
Allora, ritornando a bomba, il primo colloquio l’ho fatto a Ivrea, come detto, con uno di cui non ricordo il nome. Il secondo invece con Volponi, che ha dato il suo OK per il terzo definitivo colloquio, con Elserino Piol e Mario Becchi, che ha portato all’assunzione il 1° gennaio 1967 nella Direzione MKTG sotto Becchi.
Durante il primo anno di lavoro mi sono accorto di non avere la minima conoscenza di informatica (e altro …). Ho sottoposto quindi a Becchi un programma formativo presso l’IBM.
Il programma (inizio 1968) comprendeva temi non propriamente tecnici (teoria delle code, pianificazione, etc.), ma anche un corso di Assembler.
Nel settembre 1968 ho lasciato l’Olivetti (da cui con il 1° gennaio avevo già avuto un aumento di stipendio (da 160.000 a 180.000 Lit/mese) a fronte di un’offerta irrinunciabile di Univac-Sperry Rand (250.000 Lit/ mese).
Prima di venir via però (oltre a essermi sposato) ho lasciato tutti gli appunti, riutilizzabili, dei corsi fatti all’IBM e soprattutto il primo diagramma a blocchi del “colloquio” del TC100, cioè il diagramma della tecnologia polling-selecting, utilizzata in seguito per tanto tempo da colleghi e clienti.
Caro Gianni, ti torna questa storiella?