di Gianni di Quattro
La Olivetti aveva dei criteri di selezione che privilegiavano la conoscenza e la cultura e quindi avere vissuto in mezzo a gente di un certo tipo è stato un privilegio ed un valore. Questo a prescindere dal percorso fatto, dal successo o dalle sconfitte ed anche dagli amici conquistati nel cammino, e questo è un valore, un grande valore che ha arricchito la mia vita e la ha resa diversa da come avrebbe potuto essere se per avventura mi sarebbe toccato vivere e lavorare in ambienti burocratici o banali o di livello incerto dove avrebbe avuto spazio una influenza negativa sulla propria crescita umana e non solo professionale.Avere vissuto in ambienti dove la bellezza e non solo la cultura era all’attenzione della impresa ed era anzi una connotazione della impresa stessa, è stato un valore che ha contribuito a formare un gusto nell’assaporare e osservare la vita e a capire il piacere e non solo l’emozione di apprezzare il modo di vivere.
Il rapporto tra le persone, il senso di responsabilità, l’ambizione di farcela anche in situazioni avverse, la coscienza che lavorare insieme è lavorare meglio e lavorare nell’interesse di tutti, la capacità di giudicare, il senso di adattamento, dare valore alla forma solo quando c’è sostanza, cercare la via migliore per arrivare, avere capito che senza l’impegno della propria intelligenza nessun risultato è possibile. Sono le cose che nell’azienda si sono acquisite spontaneamente, giorno per giorno, vivendoci e lavorando a qualsiasi livello e sono valori che poi rimangono nella propria vita.
L’opportunità di conoscere non solo persone e ambienti, ma anche paesi e altre culture, capire il senso di stare in un mondo grande, complesso e vario, penetrare altri modi di pensare magari lontani dalle abitudini consuete è un altro valore insieme al viaggiare e a capire di più e meglio la vita.
Infine, il valore di avere vissuto una delle esperienze più significative sul piano umano e professionale in una industria che ha tentato strade diverse nel secolo passato in un paese come l’Italia dove vigeva il provincialismo, dove il sistema industriale viveva o all’ombra di monopoli di fatto o di diritto o appoggiandosi a caste politiche di interesse, è assolutamente impagabile. Significa avere capito le logiche del potere, le difficoltà del cammino della giustizia sociale, le barriere che uomini mettono ad altri uomini nel processo di evoluzione sociale, come si possa avere un regime dichiarato nella forma ma non nella realtà. Il valore di competere lealmente con le proprie idee e con le proprie forze di qualsiasi natura per potere avere un sistema sociale non diseguale e davvero libero nell’interesse di tutti gli uomini della comunità.
Gianni,
mi congratulo molto con te. Hai espresso molto bene considerazioni ed anche emozioni che personalmente ho provato ma che non ho avuto la pressione per mettere insieme e comunicarle. Spesso questi ricordi con i relativi commenti li teniamo gelosamente in un angolo della nostra memoria, senza avere la determinazione di esprimerle, ad es. in questo sito, anche per attivare uno scambio di opinioni al riguardo.
In precedenza avevo lavorato in due aziende, di cui una molto grande, in posizione di leadership ed estesa a livello internazionale: buona ma non confrontabile con Olivetti su tutti i punti importanti che hai evocato. Centrata anche la tua considerazione finale sul confronto tra l’atmosfera e la cultura dell’Olivetti e l’ambiente italiano del tempo.
Peccato davvero che tutto ciò si sia esaurito, anche se è bello averlo vissuto.
Sei stato davvero bravo.
Federico Corradi
Carissimo Gianni, le considerazioni che hai sapientemente riportato sono assolutamente condivisibili da chi, dopo circa 22 anni di Olivetti, ha operato per ulteriori 14 anni in altre aziende multinazionali. La “nostra” Olivetti ha rappresentato una esperienza talmente alta e formativa che, ancora oggi, dopo tanti anni non ho trovato una azienda che fonda sugli stessi validi principi “olivettiani” il suo business, dando priorità al fattore sociale ed umano del suo personale.
Mario
Cari amici, cari Gianni e Federico,
è vero la nostra esperienza è stata tale da farmi affermare, come ho scritto, che la Olivetti aveva un’anima!
Ma vorrei lenire il nostro rimpianto ricordando che in quegli anni eravamo giovani e chiedendo: quanta di questa nostalgia è dovuta all’aggiungersi dell’inconscia rievocazione di una stagione della nostra vita che non può ritornare mai più?
Mario Moncada
caro Gianni e caro Mario sono pienamente d’accordo e mi unisco a voi con gioia e rimpianto.
saluti
Caro Gianni, come sempre appassionatamente hai colto molte verità che tutti noi olivettiani (anche quelli della “seconda ora”, come io amo definirmi, avendo vissuto in azienda dal 1968 al 2000) abbiamo vissuto e tuttora condividiamo.
Ho anche apprezzato l’assenza di riferimenti critici, che pure sarebbero stati legittimi e sono comunque molto diffusi, ai momenti duri, specialmente gli ultimi anni, nei quali peraltro, come sa chi mi conosce, io vedo ancora guizzi di olivettianità, come l’inusitato salto nella telefonia (non intendo quella Tim, ma quella di Omnitel e Infostrada).
Aggiungerei il nostro dovere e, per quanto ce lo consente l’età, la nostra volontà, di funzionare da carburante per le nuove generazioni, stimolandole ad amare quei valori che sappiamo.
Un caro abbraccio ai colleghi che hanno già parlato.
Come non si può non essere d’accordo con i precedenti commenti,un’Azienda antesignana in tutto tecnica ed umanità,il prodotto è l’uomo al centro del “business” ma nonostante ciò l’Olivetti è morta,come una devota Madre ha allattato e fatto crescere migliaia di figlioli che ne hanno portato lo stile in tutto il Mondo.Ma l’Olivetti è morta,non nel ricordo,ma nella realtà,unica nazione tra i paesi informatizzati: l’Italia che non ha un Gruppo produttivo ed Informatico Nazionale.
Quindo vorrei,cari colleghi,che avessimo il coraggio di dichiarare chi è stato l’Assassino e quali sono stati suoi… complici.Si sono perse molte occasioni all’evolversi del Mondo Informatico “il garage dei capelloni(Steve jobs &…)” “collaborare con i giapponesi sarebbe un abbraccio mortale” e così via,non si può dimenticare la fase finale in cui la Dirigenza è stata sballottata tra acquisizioni e vendite che avevano più l’odore finanziario che produttivo poi si dirà che era necessario vista la situazione economica creatasi ma si potrebbe ribattere come siamo riusciti a creare tale situazione economica? e direbbe il filosofo Arbore “meditate gente…meditate”
Caro Gianfranco, come te anch’io sono perfettamente d’accordo con Gianni e, soprattutto, sottolineo quanto da te espresso circa la morte della Olivetti. Per quanto concerne i suoi assassini, io già da tempo ho espresso il mio pensiero in rete e mi piace ripeterlo qui perché, vedi, io posso essere considerato un “testimone oculare”. All’epoca dei fatti io ero presente in Olivetti. Ho iniziato a lavorare a Borgolombardo nel 1959 dove ho conosciuto sia il grande Adriano che l’altrettanto grande ing. Tchou. Ho fatto parte del team di collaudo della Elea 9003/01 e quando Adriano è morto nel febbraio del 1960 fummo sgomentati ma, sotto la guida di Mario Tchou, stringemmo i denti e portammo a termine l’opera consegnando la macchia alla Marzotto. Ma il destino nefasto era dietro l’angolo e a novembre del 1960 ci lasciò anche l’ing. Tchou. A questo punto, essendo venute a mancare le vere e sole colonne portanti di quella splendida avventura, gli “assassini”, stranieri e italiani, hanno avuto buon gioco e, con qualche telefonata politica della quale non è possibile trovare traccia perché gli assassini, quelli bravi, non ne lasciano, nell’arco di un paio d’anni, regnante negli USA il democratico Kennedy ed essendo stati formati in Italia i primi governi di centrosinistra (io non credo alle coincidenze) appoggiati anche da qualche grande industria nostrana che non vedeva di buon occhio la politica industriale olivettiana, la nostra Olivetti venne messa in condizioni di dover “svendere” quel po po di gioiello, per un tozzo di pane, alla General Electric. Si disse a causa di un dissesto economico. Balle. La Divisione Elettronica aveva alle spalle una società con fabbriche in tutto il mondo ma, evidentemente, la dirigenza, vuoi per le troppo forti pressioni esterne vuoi per il difettare di quello che mancava anche a Don Abbondio, non fu in grado di resistere. Per non parlare della “strana” e mai chiarita morte di Adriano, per non parlare della morta dell’ing. Tchou in un incidente stradale. Io conoscevo il suo l’autista nonché guardia del corpo e non sono mai stato convinto che quel ragazzo possa aver commesso un’imprudenza tale da causare la morte di entrambi. Nella fiction televisiva di qualche anno fa si ventila sommessamente, almeno per quanto riguarda Adriano, l’intervento dei Servizi americani. L’arte di chi ha affossato l’Olivetti ha fatto cadere nel dimenticatoio tutta la faccenda tanto che le nuove generazioni nulla sanno di questo glorioso nostro passato. Solo pochi vecchi come me continuano a sgolarsi per far conoscere la nostra storia.
Un caro saluto a tutti.
Gianfranco Nizzica
Come non essere in perfetto accordo con le tue serene e sincere considerazioni, ritrovandomi in molti dei concetti espressi ma soprattutto in molte delle esperienze riportate nell’articolo. Esperienze che ho potuto vivere ed apprezzare nei miei 25 anni di Olivetti pre Wang, pre Getronics, discorsi che mi hanno riportato a riflettere su quanto di positivo ho acquisito dal mio vivere come risorsa di una comunità che puntava al bello e al nuovo. Come diceva un mio grande capo in Olivetti, meglio vivere di ricordi che di rimpianti e per fortuna i ricordi sono tanti. Grazie Gianni per averceli fatti rivivere.
Risposta in particolare all’intervento di Gianfranco Nizzica.
Io non ho avuto il piacere di conoscerla, essendo arrivato in Olivetti nell’ultimo trimestre del 1977. Ho apprezzato e condivido – la sua sintesi su come l’ambiente esterno nazionale e internazionale hanno contribuito alla liquidazione di ciò che era stato realizzato con l’Ing. Tchou. Ma ciò che mi ha provocato particolarmente sono stati i suoi dubbi/sospetti sulle causa delle morti di Adriano e dell’Ing. Tchou. Certo può essere stata una combinazione tragica e sfortunata particolare, ma lei suggerisce che la morte di Adriano sia stata “strana” e mai chiarita e inoltre che considerava improbabile che l’autista e guardia del corpo di Tchou sia stato la vera causa di quel tragico incidente d’auto. Infine che “L’arte di chi ha affossato l’Olivetti ha fatto cadere nel dimenticatoio tutta la faccenda” di Tchou e anche di Adriano credo. D’altronde questa ultima iniziativa di Adriano – che si stava sviluppando brillantemente – ha potuto sicuramente disturbare molto chi aveva una potenza economica e tecnica molto maggiore e puntava ad imporla a livello mondiale.
Ma in quanto sopra c’è la fonte di un grande vicenda di “autentico giallo”: le chiedo non avendo vissuto direttamente quelle vicende: per la morte di Adriano in treno c’è stata una autopsia professionale e del tutto sicura? E inoltre sono stati individuato testimoni per l’incidente d’auto di Tchou e c’è stato un rapporto della Polizia stradale su di esso?
Sì, è veramente tardi per porsi queste domande ma sono sorpreso che l’enorme importanza dei due eventi non abbia a suo tempo originato delle indagini esaurienti e fatte a fondo. Lei aveva seguito in dettaglio le cronache relativa a quel tempo?
Per cose di questa importanza ho letto in passato che sono state fatte analisi di tipo investigativo e rivelatrici con vari anni di ritardo.
Sogno o illusione?
Le invio i miei cordiali saluti
Federico Corradi
Sulla questione legata alla scomparsa di Adriano Olivetti e Mario Tchou (ovvero la cosiddetta teoria del complotto) non credo esistano prove certe (e neppure incerte per la verità). Ne abbiamo parlato anche su questo sito in occasione dell’uscita del libro di Meryle Secrest. Ci sono altri commenti e link sulle due pagine dedicate: qui e qui. Ovviamente lascio all’amico Nizzica la replica.
Cari Mauro e Federico,
mi scuso per il ritardo con cui rispondo ma, per mia disattenzione, mi erano sfuggiti i vostri interventi.
E’ chiaro che non ci sono prove di quello che io temo possa essere accaduto. Sarebbe troppo facile! Se fosse veramente accaduto ciò di cui parliamo, pensate davvero che l’autore avrebbe lasciato qualche traccia? Io non sono mai stato un “complottista” ma questi fatti, forse perché mi hanno colpito direttamente, li ho trovati molto strani. Quando morì Adriano io non avevo ancora compiuto vent’anni ma, da quello che ricordo, non mi sembra che la stampa abbia dato molto risalto al fatto spiegando di cosa era rimasto vittima l’ing. Olivetti. Per l’altra disgrazia, come ho già detto, mi sembra ancora oggi incredibile che possa essere avvenuta per colpa dell’autista. Conoscevo abbastanza la persona e la ritenevo un giovanotto serio, pacato, incapace di commettere imprudenze al volante. Ma, anche in questo caso, non è stato rilevato alcunché di sospetto. Ciò che resta ancora molto strano, almeno per me, è la coincidenza per cui una società come la nostra, che disturbava sia gli USA che alcuni grandi industriali nostrani nonché alcune banche, sia incappata, a tempo di record, in due provvidenziali “incidenti” che hanno risolto di colpo i loro problemi.
Gianfranco Nizzica